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lunedì 4 agosto 2014

Diario d'agosto /4. Il valore del riciclato


La generazione prima di me aveva il gusto del riciclato. Non si buttava mai niente, un po’ per fame, un po’ per sapienza di artigiano. Il legno e il ferro assumevano volti nuovi, la materia respirava aria nuova, e un bicchiere di vino era la compagnia giusta all’estro e al lavoro delle mani.
Succedeva anche al pane, quando, non mangiato, veniva riutilizzato in mille modi diversi da cuoche severe che sapevano persino rendere saporita e intrigante la mollica: in brodo, impasticciato con altri, in forno, a contorno di pastella. Ricordo perfettamente quando mia madre metteva sul piatto un pezzo di pane secco, ammorbidito nell’acqua, e condito con olio e sale: una bontà. Ci si divertiva e sfamava con poco.
Erano i tempi della miseria e della ricostruzione di un paese che guardava al suo futuro ancorandosi fortemente ai mestieri e alla cultura del passato. Gli operai edili gettavano calce in faccia ai muri degli altri, per poi, con abile maestria e docile opportunismo, conservarne un po’ per loro stessi: nascevano così le case che abitiamo ancora oggi, ultima cambiale in bianco di genitori a figli perduti nel consumismo sfrenato del mondo di oggi dove, se si rompe una cosa, se ne compra subito un’altra.
Nel mio quartiere trenta anni fa c’erano almeno tre calzolai e due sarti. Oggi rimane, qualche volta, dipende dal permesso di soggiorno, un rumeno che si è inventato di fare il calzolaio, antico mestiere della porta accanto. Lui è bravo, ma ha pochi clienti italiani: una scarpa è sempre meglio pagarla dai cento euro in su, altrimenti che scarpa è?
A Dobbiaco, invece, in Val Pusteria, un negozio di articoli sportivi per montagna tra i più famosi in Alto Adige, rimette a posto le suole degli scarponi da trekking. Un miracolo di sapienza e di risparmio. Lo scorso inverno ho visto recapitarmi a casa i due scarponi di mia moglie di una nota marca completamente risuolati a nuovo, al modico prezzo di 80 euro (nuovi costano 250). Funzionano. E sono pure belli.
Così oggi, quando i miei mitici scarponi di montagna, dopo 11 anni di onorato servizio, mi hanno lasciato improvvisamente a piedi nudi a soli, per fortuna, 1900 metri di altitudine, ho pensato che dovevo subito passare a Dobbiaco, che poi avrebbero mandato i miei scarponi in una fabbrica del nord Italia, dove, manco a dirlo, gli operai sono tutti rumeni.

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