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mercoledì 26 marzo 2014

La Chiesa italiana a un passo dal bivio


Eppure Bergoglio li ha consigliati i vescovi italiani: sceglietevi voi il prossimo presidente della Cei. Raccomandazione “umilmente” respinta al mittente. Troppo particolare il rapporto tra il papa e la Chiesa italiana, di cui, appunto, è anche il primate. Semmai una rosa di nomi suggeriti dai vescovi stessi, ma poi la scelta finale che ricada sul papa. Come giusto che sia. Peccato che non succede nel resto delle Chiese del mondo dove, appunto, il primate lo elegge l’Assemblea dei vescovi locali.
Una storia, questa dell’elezione del prossimo presidente della Cei, che in realtà nasconde, almeno mediaticamente, ciò che bolle in pentola nella “potente” Chiesa italiana. Bergoglio la sta sottoponendo, infatti, a una cura drastica: ne ha chiesto un nuovo statuto, ma soprattutto, indica ai suoi pastori una completa conversione pastorale, più del cuore che burocratica.
Nunzio Galantino confermato per cinque anni segretario generale della Cei. Don Luigi Ciotti mano nella mano con il papa. Don Angelo De Donatis che predica gli esercizi spirituali al papa e alla curia. Mons. Bregantini che scrive le riflessioni per la via Crucis del venerdì santo. Mi limito a fare il cronista. E ancora: a maggio, durante l’Assemblea generale della stessa Cei, Bergoglio pronuncerà la prolusione. E cosa dirà?
Non ricordo interventi così incisivi di un papa nella Chiesa italiana. Sì, certo, Giovanni Paolo II nel 1985, durante il Convegno ecclesiale di Loreto, sconfessò l’ala conciliare che faceva capo al card. Martini, aprendo di fatto l’era Ruini, ma non accadde durante un’Assemblea ordinaria. La differenza è notevole. Quello che cerca Francesco è una Chiesa umile, sobria, povera di averi, serva del popolo di Dio e dell’umanità. Dopo il pontificato dialogico di Paolo VI, quello comunicativo-missionario di Giovanni Paolo II, e quello intellettuale di Benedetto XVI, arriva dunque la Chiesa sociale di papa Bergoglio.
È chiaro ormai che una Chiesa potente con i potenti e docile all’idea di religione civile, Bergoglio la detesta. La Chiesa che vuole e immagina è “incidentata”, che esce dalle mura del tempio per incontrare gli uomini lungo le strade delle periferie. Teologicamente e pastoralmente ne parla nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium. E per quanto riguarda esperienze pastorali da seguire, basta dare un’occhiata ai nomi dei recenti cardinali oppure ai nuovi membri delle Congregazioni della curia romana per rendersi conto di cosa sia importante, oggi, per papa Bergoglio.
Eppure, la domanda rimane: a maggio, cosa dirà alla Chiesa italiana Bergoglio? Una cosa è sicura: un certo clima da “progetto culturale” e di Chiesa mediatrice di interessi (anche economici) è finito. Rottamato. Il progetto è “sociale”, pastoralmente vicino agli uomini di buona volontà impegnati con chi chiede aiuto e ai lontani. Un rinnovamento quasi interiore all’interno dell’episcopato italiano, che predilige l’annuncio del vangelo sulla strada che non la comunicazione di un’idea vincente di Chiesa nelle stanze del potere o negli ammiccamenti degli “atei devoti”. I valori non negoziabili non sono altro, per Bergoglio, che l’abbandonarsi con misericordia e tenerezza al vangelo che affascina e accarezza.
Ma, è questo il paradosso, sembra che questo “schema” ancora non faccia completamente breccia dalla maggioranza dei pastori italiani. C’è quasi una paura di incontrare il “nuovo”. Ecco perché i prossimi mesi saranno fondamentali per la Chiesa italiana. Francesco aprirà la strada. Alla Chiesa italiana la libertà e la saggezza di percorrerla con coraggio.

domenica 23 marzo 2014

Io voto per suor Cristina

Intendiamoci. Non sopporto le passerelle dei religiosi a uso e consumo delle tv avide di sorriso e pianto. Conosco i rischi delle inquadrature studiate a tavolino, la spettacolarizzazione del sacro mi fa rabbrividire. Ma non sopporto nemmeno il cristianesimo a uso e consumo del cristianesimo stesso. Rabbrividisco di fronte alla "Christian Music ", se penso all'edizione italiana dell'inno per la Gmg di Rio mi prende male, e di chitarre scordate e cori parrocchiali rabberciati e inascoltabili ne ho piene le tasche.
Eppure gli spirituals dei neri d'America hanno dato inizio alla migliore musica del secolo passato, le danze africane lodano il Signore, non c'è musica araba senza la presenza di Allah, e tutto il suono del continente indiano ha con sé il soffio di Colui che è oltre.
Ecco perché non ho trovato nessuno scandalo nell'esibizione di suor Cristina. Ha una bella voce, da soul puro. Un'energia pazzesca. Purtroppo la novità sta nel fatto che è una suora. Ecco. Appunto. Ma perché ogni volta che c'è un credente che fa arte in modo professionale, noi ci scandalizziamo? Perché relegare l'arte solo e unicamente tra le pareti del tempio?
Mi capita, ogni tanto, di andare ad ascoltare messa in una chiesa al centro di Roma dove la comunità congolese celebra la gioia della liturgia. E che gioia. Sembrano tutti delle suor Cristine.
Quasi due ore di liturgia domenicale che sembrano passare in un attimo. C'è solo la musica, e la danza. Bastano a lodare il Signore. Forse, chissà, dobbiamo ancora abituarci a una certa prassi dello Spirito e dell'anima che non ha paura di dire ad alta voce, "o Signore, canto per te".
E allora ascoltaci, o Signore. Guarda come suoniamo, come cantiamo, perfino come amiamo.
Noi il blues sappiamo cosa è. E siamo sicuri che a te non fa dispiacere.

lunedì 10 marzo 2014

Quella sera del 13 marzo di un anno fa...


Quella sera del 13 marzo di un anno fa ero anche io in piazza San Pietro. Pioveva dalla mattina, e faceva freddo. Scelsi di stare tra la folla di fedeli e semplici curiosi che già riempivano il Colonnato, piuttosto che tra il caldo e l’amicizia dei colleghi in sala stampa. Sentivo che qualcosa stava per accadere alla sposa del Cristo, qualcosa di nuovo, di incredibile. Troppi scandali aveva sopportato la Chiesa negli ultimi tempi, il Vatileaks, i preti pedofili, e un Benedetto XVI esposto all’ingovernabilità della barca di Pietro, fino al profetico gesto delle dimissioni.
Così, quando venne la fumata bianca, mi misi a guardare la finestra della loggia centrale, quella dalla quale si pronuncia l’habemus papam, con la certezza di assistere a un evento storico, e non era certo la prima volta che seguivo l’elezione di un nuovo papa. Ricordo ogni volto, ogni sorriso, perfino il pianto della gente. Ricordo le preghiera per le strade di Roma, i volti tesi, gli abbracci, la grande bellezza di un evento mediatico, certo, ma anche la certezza che il soffio dello Spirito vagava lì, in una piazza brulicante di gente, in attesa di posarsi sul successore di Pietro.
C’era un silenzio strano. Quando il protodiacono, il francese Jean-Louis Tauran, lesse la formula di rito, l’habemus papam, e disse: «Eminentissimum ac Reverendissimum, Dominum Georgius Marius, Sanctae Romanae Ecclesiae Cardinalem Bergoglio, qui sibi nomen imposuit Francescus», il silenzio si prese la piazza. Soprattutto quando Francesco parlò per la prima volta, e chiese di pregare per lui. Un silenzio assordante, non si sentiva un cellulare, perfino le automobili smisero di far rumore nel traffico impazzito di Roma. La gente non capiva. Chi è Bergoglio, chiedeva? È un italiano? Cercai subito di rassicurare i vicini. Ma dentro di me fremevo, ero quasi sconvolto da una notizia che per me rappresentava la buona notizia, il fatto che la Chiesa era viva, che il vangelo ancora oggi poteva incamminarsi per le strade del mondo.
Ripensai al maestro scomparso da poco, il cardinale Carlo Maria Martini, e al fatto che proprio lui cercò di far eleggere sette anni prima lo stesso Bergoglio come papa, salvo poi dirottare i voti dei progressisti sul conservatore Ratzinger, per paura che i voti premiassero altri personaggi di curia più discutibili. Pensai a lui: chissà come si sentiva, oggi, in cielo. E poi quel nome: Francesco. Che altro c’era da aggiungere?
Troppo chiaro quel nome, troppo forte. Troppo evangelico. Scoppiavo di felicità. In quel nome c’era già tutto: il futuro papa Francesco, anzi vescovo Francesco, si presentava al mondo con un nome che incarnava il vangelo più sobrio, più povero, più misericordioso, più tenero, più amico dell’altro.
Non mi sbagliai con Bergoglio. I giorni a seguire furono così i giorni dello Spirito. Le omelie di Santa Marta, la lavanda dei piedi a una donna musulmana e carcerata, l’abbraccio ai migranti sbarcati a Lampedusa, la riforma dello Ior, la riforma della Curia, i nuovi cardinali fuori dai soliti giri e dalle solite poltrone, i vescovi scelti come umili servitori del proprio popolo, le randellate ai fratelli preti.
Il sorriso di Francesco spiazza fedeli e non credenti. Il suo non è buonismo di facciata. Semmai è misericordia, tenerezza dell’abbraccio con Dio. Bergoglio è un gesuita. Ascolta tutti, poi decide. Ha una formazione severa, sebbene il suo animo latino-americano, allegro per natura, si è allenato alle dittature dei militari nell’America Latina martoriata dalla povertà e repressa nell’uso dei diritti più fondamentali. Ha conosciuto la teologia della liberazione, ne è stato anche l’artefice, sa cosa significa fare il prete quando per il popolo non c’è cibo, né acqua, e quando la democrazia è una parola ormai dimenticata.
Con il tempo mi sono fatto l’idea che papa Francesco raggiunga ciascuno dei fedeli e dei più lontani a modo suo. Come è giusto che sia. Ognuno sa coglierne aspetti particolari, ognuno crede che Francesco faccia una determinata cosa o un’altra perché ha da sistemare la Chiesa, oppure perché crede in un nuovo annuncio missionario.
Parlando con alcuni monaci, mi sono fatto l’idea che Francesco sia davvero un uomo di Dio. Che abbiamo avuto fortuna nell’incontrarlo nella nostra vita. Un uomo di Dio che sta cambiando la sua Chiesa e che la sta portando, nemmeno troppo lentamente, sulla strada degli uomini liberi e innamorati di un Dio che salva con il sorriso.
Pensando a Francesco, non posso, oggi, non dire che parole come misericordia e tenerezza da tempo non frequentavano il lessico della teologia, almeno quella abituata ai convegni e ai documenti ufficiali. Da quel 13 marzo di un anno fa, il vangelo si è sdoganato dalle mura del tempio e ha iniziato un nuovo cammino di umanità.
Sì, ha messo di nuovo in discussione i termini di una fede annunciata e forse, nel tempo, poco praticata, ci ha costretto a un atto di sottomissione rispetto a una novità pastorale così elettrizzante, ci ha fatto guardare dentro l’anima.
Al di là di quello che sta suscitando la novità Francesco, sia nella pastorale che nella teologia, Francesco, oggi, tocca i nostri cuori. Oltre i nomi, lo Ior, la burocrazia, i conservatori, i tradizionalisti, oltre tutti quelli che hanno fatto scivolare la Chiesa nel baratro della religione civile e lungo i sentieri inossidabili della difesa dei valori non negoziabili.
Con Francesco non c’è nulla di tutto ciò. Lui, il papa, il vescovo di Roma, dà credito al vangelo dell’uomo. Per alcuni è una iattura. Per me, semplice cristiano, è più di un segno. È lo Spirito che batte forte sulle porte della storia.