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venerdì 27 aprile 2012

La messa non è finita


Di solito si scrivono le biografie in occasione di anniversari. Nel caso di don Tonino io l’ho fatto per mancanza. È un paese strano l’Italia. Spesso abbandona alla dimenticanza i suoi figli migliori, oppure li acclama eroi per pochi giorni. Dentro questa distanza tra acclamati e dimenticati c’è la spiegazione del perché ho passato gli ultimi due anni in compagnia di don Tonino Bello, profeta di un vangelo della speranza che non ha paura di accarezzare, accompagnare, aiutare. Sono diciannove anni che don Tonino non c’è più, e dire che manca a questa nostra società ammalata di egocentrismo e rimasta prigioniera dentro una crisi etica senza precedenti, è dire poco.
Don Tonino non solo ci manca, a livello affettivo, umano. Ma il fatto che le sue parole ci siano state, che il suo vissuto sia stato evidente a tutti, ci dicono che la speranza (cristiana) e l’utopia (laica) di una società più giusta e sorridente sia, sì, ancora oggi, possibile. Persino una Chiesa migliore di quella di oggi appare possibile.
Ecco perché mi sono messo sulle tracce di don Tonino Bello, vescovo dal 1982 al 1993 di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi. Ecco perché ho chiesto l’aiuto della postulazione della causa di beatificazione nel ricercare le cause della sua beatitudine in terra.
Sono stati due anni intensissimi. Don Tonino è un autentico genio della scrittura e della parola, coltivatore del cuore e delle mani, artista del sorriso. Ripercorrere la sua vita e le sue opere attraverso i suoi scritti e ricordi di chi lo ha conosciuto, è come sedersi di fronte a un monumento di saggezza e santità del quotidiano.
Ho cercato, anche da cattolico, di andare oltre le ristrette mura della cultura cattolica. Sono convinto, infatti, che don Tonino sia un personaggio che appartenga a tutti. Laici e cattolici. L’aver convinto un editore come Rizzoli a pubblicare il libro mi conforta in questa mia idea.
Scrivendo di lui, ho imparato molto. La convivialità delle differenze che don Tonino amava praticare è molto più di un manifesto delle buone intenzioni. È vita vissuta, capacità concreta di non aver paura dell’Altro.
Spero che il libro, oltre a fare memoria di don Tonino, trasmetta a chi lo leggerà questi sentimenti e queste emozioni. E un briciolo di speranza sorridente.
Per un futuro da cambiare e da amare.


Gianni Di Santo (con Domenico Amato)
La messa non è finita. Il vangelo scomodo di don Tonino Bello
Prefazione di Andrea Riccardi
Rizzoli Editore
pagg. 240, euro 17,50 (nelle librerie dal 16 maggio)

venerdì 20 aprile 2012

Quanto ci manchi, don Tonino!


«…Un’ultima implorazione, Signore. È per i poveri. Per i malati, i vecchi, gli esclusi. Per chi ha fame e non ha pane. Ma anche per chi ha pane e non ha fame. Per chi si vede sorpassare da tutti. Per gli sfrattati, gli alcolizzati, le prostitute.
Per chi è solo. Per chi è stanco. Per chi ha ammainato le vele. Per chi nasconde sotto il coperchio di un sorriso cisterne di dolore. Libera i credenti, o Signore, dal pensare che basti un gesto di carità a sanare tante sofferenze. Ma libera anche chi non condivide le speranze cristiane dal credere che sia inutile spartire il pane e la tenda, e che basterà cambiare le strutture perché i poveri non ci siano più. Essi li avremo sempre con noi. Sono il segno della nostra povertà di viandanti. Sono il simbolo delle nostre delusioni. Sono il coagulo delle nostre stanchezze. Sono il brandello delle nostre disperazioni. Li avremo sempre con noi, anzi, dentro di noi. Concedi, o Signore, a questo popolo che cammina l’onore di scorgere chi si è fermato lungo la strada e di essere pronto a dargli una mano per rimetterlo in viaggio.
Adesso, basta, o Signore: non ti voglio stancare, è già scesa la notte. Ma laggiù, sul mare, ancora senza vele e senza sogni, si è accesa una lampara».

Oggi, 20 aprile duemiladodici, ci piace ricordare don Tonino Bello così, nel diciannovesimo anniversario della sua morte. Il testo è tratto da Preghiera sul molo, meglio noto come la La Lampara. Don Tonino è solo sul porto di Tricase, e saluta la sua gente in questo modo prima di andare a Molfetta, dove è appena stato nominato vescovo. Un testo struggente e bellissimo, frutto di un uomo e prete innamorato della Parola e profondamente immerso nel solco della Chiesa riformata dal Concilio Vaticano II.
Sono passati tanti anni, ma di don Tonino non abbiamo perso né la memoria, né il suo coraggio e la sua profezia. C’è un processo di beatificazione in corso, ma ci sono soprattutto le tante testimonianze di chi lo ha conosciuto, e di chi si è lasciato convincere dalla sua profonda umanità. Con la povera gente, sempre, con gli sfrattati, i disoccupati, gli alcolizzati, i malati, i carcerati, gli immigrati. Un uomo e un vescovo che ha saputo fermare le bombe a Sarajevo, nel dicembre del 1992, con altri cinquecento “pazzi” e ostinati della pace.
Nell’Italia di oggi, e nella Chiesa di oggi, don Tonino avrebbe avuto molto da dire. Avrebbe accarezzato, accompagnato, aiutato. Qualche volta alzato la voce per farsi sentire.
Caro don Tonino, ci manchi molto. Ci manca la tua profezia, il tuo modo di spiegare e raccontare le parole sacre, e il fatto che non hai mai avuto paura del dialogo con l’Altro, il diverso da noi.
Ti sentiamo vicino. Perché mai come oggi abbiamo bisogno di santi ribelli che ci aprano gli occhi sulla nostra ipocrisia facendo nascere in noi la sete di una giustizia più vera.

giovedì 19 aprile 2012

Il mio compleanno nell'era di facebook


Ieri, diciotto aprile, ho compiuto quarantasette anni. Direte: e a noi cosa importa? Giustissimo. Se aggiungo questo post “personalissimo” nell’era della rete globale e dei sentimenti messi in pubblica piazza (cosa che non condivido, come sanno i miei lettori), è perché la giornata di ieri mi ha intrigato molto.
Cominciando dall’inizio. Tre bellissime donne mi hanno ricordato che era il mio giorno, subito, e in modi diversi. Mia moglie con un bacio a mezzanotte, mentre io, stravolto dalla fatica, suppongo dormissi. Una collega incrociata appena ho messo piede sul luogo di lavoro e un’amica al telefono mi hanno semplicemente detto “auguri”. Vi sembra poco? Tre colpi niente male, per le ore nove del mattino. Ma mi è bastato accendere il pc per accorgermi di ciò che mi sarebbe capitato.
Senza farla per le lunghe. Nella giornata di ieri ho conseguito 33 messaggi personali via facebook, 2 mail, 6 sms, 7 auguri dal vivo e 5 telefonate. A parte i parenti stretti, che, con il passare degli anni diventano sempre più “stretti” e si contano in poche unità, direi che attraverso facebook mi hanno scritto 8 persone che non conosco personalmente (ma che siamo “amici” virtuali attraverso la rete), ben 16 che non vedo da parecchio, e solo 5 che abitano nel mio quartiere. Andando ancora a restringere l’indagine mi hanno scritto 3 preti, un polacco, un messicano e un innamorato di Santiago, ma non il mio parroco, solo due colleghi musicisti, così come mi hanno dato dal vivo gli auguri due colleghi giornalisti (a cui, naturalmente, ho offerto immediata colazione). Polemicamente dovrei aggiungere che mancano all’appello i miei due testimoni di nozze, chi incrocia con me regolarmente penna e suono, e tanti altri della porta accanto (…non si è mai profeti in patria). Questi i numeri. Ma qui mi fermo, anche perché ieri un amico più “anziano” di me mi ha detto, senza mezzi termini, al telefono, che i “prossimi vent’anni saranno i migliori”.
Forse ha ragione lui. Nel frattempo, però, innamorato come sono della categoria teologico-biblica del “già e non ancora” (categoria tra le più laicissime che io conosca), ho l’impressione che i miei giorni passati si stiano riempiendo di tenera nostalgia per i volti conosciuti e amati, e i giorni a venire di inaspettato sorriso per quello che conoscerò e amerò.
Oggi, diciannove aprile duemiladodici dell’era di facebook, il giorno dopo della mia memoria vivente e il giorno prima del mio buon futuro possibile, so cosa sono stato, e so cosa vorrei essere. Lasciandomi però attraversare da questo vento impetuoso di mille volti e lingue che, oggi, nel nuovo tempo dei cammini dei popoli e della comunicazione intergenerazionale e globale, si accompagnano alle nostre vite. Mi sento davvero dentro un enorme suk dove volti, suoni, colori, mani, pane e parole si divertono a ricostruire segni di speranza. Una sorta di cous cous dell’anima che ha legami con la terra (il già) e non si nasconde a un cielo (il non ancora) benevolo e paziente.
Ieri ho festeggiato in serata in un’osteria di un paesino vicino Roma. Un cibo lento, pulito e giusto. Annaffiato da un elegantissimo  Nawari, un pinot nero del Duca di Salaparuta.
Ecco, non so come dirlo, ma a me comincia a piacere incredibilmente il pinot nero. 
Che siano queste le rotte cardinali del mio prossimo viaggio, non lo so. Ma sono ben disposto.

venerdì 13 aprile 2012

I temi del prossimo conclave


Tutti contro tutti. Documenti “segreti”, lettere anonime, guerriglie lessicali fanno da contraltare al magistero sereno di Benedetto XVI. Ma cosa sta succedendo all’interno della Chiesa cattolica? Coma mai l’autorità del papa, e dei suoi collaboratori a lui più vicini, pare sia messa ogni giorno in discussione? Dal caso di Darío Castrillon Hoyos e Paolo Romeo, i due porporati finiti tempo fa al centro delle prime pagine dei giornali, e originato dal resoconto anonimo di un colloquio tra Romeo e alcuni interlocutori cinesi dal quale costoro avrebbero ricavato la sensazione “che sia in programma un attentato contro il Santo Padre”, per finire al caso di monsignor Carlo Maria Viganò, il nunzio negli Stati Uniti del quale sono divenute pubbliche due lettere al papa e al cardinale Bertone piene d’accuse sulla gestione del Governatorato del Vaticano.
Già, cosa sta succedendo? Gli esperti di cose vaticane e gli storici fanno notare che gli “intrighi a corte” ci sono sempre stati in Vaticano, perché il Vaticano è anche una sede territoriale di uno Stato che ha una diplomazia propria e ranghi dirigenziali-istituzionali. Ne va da sé che realpolitik, appetiti e carrierismo, sono i compagni di viaggio di chi, invece, nel silenzio del tempio, vorrebbe solo ed esclusivamente occuparsi di Vangelo. Solo che prima i documenti non uscivano dai cassetti e i panni, secondo un ben noto detto popolare, venivano lavati in famiglia.
Non c’è più Wojtyla, questo è un dato di fatto. La forte leadership del papa polacco teneva a bada se non i litigi, almeno le loro scappatoie mediatiche. Oggi è più difficile. In un mondo che attraversa una crisi epocale in termini di etica comune e di individualismo sfrenato, la Chiesa cattolica pare in balia dei flutti del vento e delle scorribande di lobbies e sudditi poco intelligenti.
Più che uno sgomitarsi per posti in curia, l’attuale livello di guardia da clima da guerra che si è determinato “oltretevere”, sembra essere dovuto a un posizionarsi in vista di un eventuale conclave. In un momento di transizione e di crisi, più che interessarsi di come annunciare la Parola di Dio, emblematico in ciò è l’anno della fede indetto dal papa e il nuovo Pontifico Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, c’è chi non perde occasione per immettere nel circuito massmediatico elementi di insicurezza  e di tensione. Oltre che di obiettivo disgusto.
Ma sbaglia chi pensa che dietro questo lascito di polemiche incomba solo e univocamente gli appetiti personali o l’idea che si possa condizionare il conclave in un certo modo. Perché, in realtà, e su questo gli uomini che guidano la Chiesa lo sanno molto bene, le questioni che la Chiesa dovrà affrontare non più in un futuro lontano ma nel presente attuale, sono appunto dei temi che “scottano” rispetto alla storia e alla tradizione millenaria della Chiesa cattolica.
Al suo interno la Chiesa dovrà, prima o poi, porsi il problema del ministero petrino e della collegialità dei vescovi, così di come le donne potranno dare una spinta innovativa all’annuncio del Vangelo, e prima o poi bisognerà pur parlare del celibato dei preti, argomento spinosissimo ma ormai dibattuto serenamente da gran parte del popolo cattolico. Né di poco conto è all’ordine dei lavori una vera e riconosciuta presenza laicale all’interno delle decisioni più importanti che i pastori prendono. Al di là del solito ritornello “Concilio sì-Concilio no”, le questioni sul tappeto sono le solite, verrebbe da dire, di sempre. Quelle che, cinquanta anni fa, il Concilio Vaticano II aveva dibattuto con coraggio e lealtà. Mentre al suo esterno la Chiesa dovrà parlare in modo più schietto di ecumenismo e dialogo inter-religioso.
Insomma, le questioni ci sono e non sono questioni da poco. C’è di mezzo il futuro dell’annuncio del Vangelo del mondo. Forse, dicono i riformatori più convinti, anche il futuro di una Chiesa finalmente lontana dai suoi lacci con il potere temporale, che offusca, a volte, l’immagine della Chiesa sposa del Cristo.
Questioni forti che stanno producendo nelle comunità ecclesiali un altrettanto fermento ideale sul come uscirne fuori, ma non altrettanto, per esempio, nella teologia tradizionale, che ancora risente di un clima conservativo che ne limita libertà e profezia.
Qualcuno, per esempio un laico come Ernesto Galli della Loggia, propone attraverso le pagine del Corriere della Sera, che per uscire fuori dalla stagnazione attuale basti modificare l’elezione del papa in conclave, ampliando la possibilità di votare anche ai vescovi di tutto il mondo. Questo consentirà al papa prossimo di non sentirsi accerchiato dagli intrighi di curia, essendo eletto da un numero vastissimo di elettori che rappresentano, a loro volta, le comunità ecclesiali di residenza.
In realtà, e non da oggi, rispetto a soluzioni burocratiche e tecnicamente legate all’architettura della Chiesa, fa eco una serie di personalità e di idee, per lo più legate a esperienze di preghiera e di silenzio, che con coraggio e libertà indicano la via di un nuovo annuncio del Vangelo che passi per le “forche caudine” della radicalità evangelica. Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose, lo predica da anni. I monaci camaldolesi, soprattutto oggi che il nuovo priore è il giovane dom Alessandro Barban, ne fanno un motivo di orgoglio e impegno da sempre. Il cardinale Gianfranco Ravasi ha saputo trovare un metodo esegetico e quindi “pastorale” che faccia dialogare mondo e cultura, fede e storia avendo davanti solo unicamente il Vangelo e sembra, oggi, l’unico ad aver preso il posto di un uomo e profeta della statura del cardinale Carlo Maria Martini.
È possibile, dunque, che la Chiesa ricominci a parlare di Gesù non nelle stanze ovattate del potere ma nel deserto del cuore degli uomini di oggi?
Non sono, queste, discussioni da teologi astratti. Sono, invece, il campo di battaglia del prossimo conclave. E il prossimo papa non potrà non tenerne conto.

mercoledì 11 aprile 2012

E' tempo che la politica risorga


A pochi giorni dalla Pasqua gli italiani si stanno chiedendo se è davvero il tempo della resurrezione per questo nostro Paese in difficoltà. Non ne va bene una. Alle difficoltà economiche e sociali si aggiungono quelle riguardanti l’uso dei soldi pubblici nella politica. La situazione che l’Italia sta attraversando è sotto gli occhi di tutti e non c’è bisogno di leggere le prime pagine dei giornali per saperne di più, basta andare al mercato a fare la spesa oppure parlare con il vicino di casa. Siamo al collasso economico, almeno per una fetta largamente maggioritaria della popolazione. Mentre lo spread fa il comodo suo, in un saliscendi continuo come quello della Borsa di Milano, le imprese licenziano, in barba a qualsiasi progetto di riforma dell’articolo 18, le persone perdono il posto di lavoro, i suicidi a causa della crisi economica aumentano. Il dramma sociale è sotto gli occhi di tutti, e le famiglie non riescono ad arrivare a fine mese. Anche se gli italiani hanno preso bene la manovra Monti per il ristabilirsi dei conti pubblici, adesso cominciano a non capire più il perché si debba sempre andare a pescare sul fronte delle entrate, e ovviamente sempre nelle tasche di chi già le tasse le paga da sempre. Forse un’azione coraggiosa e incisiva sul fronte dell’equità fiscale e della spesa pubblica potrebbe davvero dare uno scossone a un Paese fermo da anni.
C’è una disaffezione alla politica che dopo le ultime vicende relative allo scandalo dei finanziamenti alla Lega acquista rilevanza pubblica. Non è un caso che in questi giorni proprio Pdl, Pd e Terzo Polo stanno ridisegnando con pochi e snelli articoli di legge, una materia come quella del finanziamento pubblico dei partiti che è alla base della “buona” politica. C’è l’intesa sui controlli della Corte dei conti e sulla certificazione di società esterne, ma non sarà affrontata invece la questione dell'entità e delle modalità di finanziamento ai partiti, su cui restano divergenze. Ma bisogna fare presto, altrimenti alle prossime elezioni politiche la gente diserterà in blocco. Lo stesso Consiglio d’Europa ha bocciato il sistema del finanziamento pubblico dei partiti in Italia, e c’era da aspettarselo. Così proprio non va. Il sistema italiano è “familistico”. Il lavoro, la professione, l’arte, le cattedre: tutto si tramanda famiglia per famiglia. Non ci si dovrebbe stupire allora perché i nostri giovani migliori scappino all’estero.
La gente, i semplici cittadini, si chiede nei bar se questo è il momento più critico o se il peggio deve ancora venire. Una delle grandi colpe della politica è proprio quella di non riuscire a dare risposte per il futuro prossimo, perché troppo impegnata a sistemare l’attuale disastro economico e sociale, ma forse sarebbe il caso di chiamarlo per quello che effettivamente è, un disastro etico-civile, e a tamponare le falle di conti pubblici che non ne vogliono sapere di arrivare a pareggio. Intanto arriva dalla multinazionale svedese Ikea una buona notizia: mentre le automobili vogliamo farle in America e il resto in Cina, l’Ikea ha scelto di delocalizzare in Italia. I mobili li sappiamo fare bene, eccome. E anche le cucine. Ci sono stranieri, per fortuna, che sanno apprezzare la grande tradizione artigianale italiana.
Dalla politica oggi ci aspettiamo un compito di “buona speranza”. Che sappia allargare gli orizzonti di una giusta convivenza civile. La resurrezione della politica in Italia risiede proprio nel suo ethos dimenticato, che molti farebbero bene a ritrovare oltre al tracciare linee di bilancio con taglio ragionieristico. E in una constatazione quasi banale: tornare a essere un poco più poveri per stare meglio tutti.
La vera risurrezione passa da qui.

martedì 3 aprile 2012

La stola e il grembiule

Il rischio della Risurrezione con le parole di don Tonino Bello.


Forse a qualcuno può sembrare un titolo irriverente, e l’accostamento della stola col grembiule può suggerire il sospetto di un piccolo sacrilegio.
Sì, perché, di solito, la stola richiama l’armadio della sacrestia, dove, con tutti gli altri paramenti sacri, profumata d’incenso, fa bella mostra di sé, con la sua seta e i suoi colori, con i suoi simboli e i suoi ricami. Non c’è novello sacerdote che non abbia in dono dalle buone suore del suo paese, per la prima messa solenne, una stola preziosa.
Il grembiule, invece, bene che vada, se non proprio gli accessori di un lavatoio, richiama la credenza della cucina, dove, intriso di intingoli e chiazzato di macchie, è sempre a portata di mano della buona massaia. Ordinariamente, non è articolo da regalo: tanto meno da parte delle suore per un giovane prete. Eppure è l’unico paramento sacerdotale registrato dal vangelo.
Il quale vangelo, per la messa solenne celebrata da Gesù nella notte del giovedì santo, non parla né di casule né di amitti, né di stole né di piviali. Parla solo di questo panno rozzo che il Maestro si cinse ai fianchi con un gesto squisitamente sacerdotale.
Chi sa che non sia il caso di completare il guardaroba delle nostre sagrestie con l’aggiunta di un grembiule tra le dalmatiche di raso e le pianete di samice d’oro, tra i veli omerali di broccato e le stole a lamine d’argento!