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lunedì 30 dicembre 2013

E oggi don Nunzio, aspettando il 22 di febbraio


C’è un’aria nuova che tira per i palazzi della Chiesa italiana e non solo. Un’aria che avevamo annusato tanti anni fa con don Tonino Bello, don Luigi Di Liegro, Carlo Maria Martini, solo per citarne alcuni. Un’aria forte e tesa che ci dice che la Chiesa è in cammino in un’opera di profonda rivisitazione di se stessa.
Francesco, con le sue ultime nomine, sta rivoltando il materasso di questa Chiesa come solo le massaie di una volta saprebbero fare.
Sta accadendo qualcosa di inaspettato. Il volto umile dell’Altro, il servizio docile reso all’umanità falcidiata da ingiustizia e iniquità, riacquista, per mano di Francesco, antica dignità. E l’ultima nomina del nuovo segretario generale della Cei è solo la goccia che fa traboccare il vaso della speranza. Prima abbiamo saputo di Paolo Rabitti membro della Congregazione dei vescovi, poi di don Andrea Turazzi nuovo vescovo di San Marino-Montefeltro: preti seri e volti del servizio. Mentre la scuola tradizionalista (in teologia) e conservatrice (in politica) di Genova incarnata dal fu card. Siri è caduta in brutte acque e i suoi allievi annaspano in mare aperto.
Oggi un’altra bella notizia. Don Nunzio Galantino, guai a chiamarlo “eccellenza”, proprio come don Tonino Bello, si troverà tra le mani l’organizzazione della potente macchina della Chiesa italiana. E sappiamo già dove le indicherà di stare: lungo le periferie dell’esistenza.
Per chi aveva qualche dubbio sulla reale capacità di Francesco di cambiare davvero le cose, dovrà ricredersi. Adesso aspettiamo tutti il 22 febbraio, banco di prova della Chiesa che verrà. Quel giorno, quando leggeremo i nomi dei nuovi cardinali, capiremo davvero dove la Chiesa andrà a predicare il vangelo della speranza.
Ma, oggi, le nuvole cominciano a diradarsi. Il vento soffia, eccome.
La Chiesa di Francesco è già oltre il Concilio Vaticano II. Lo supera, lo innalza, lo rende adatto agli studiosi. Il vangelo raccontato da Francesco è quanto di più simile rispetto all’originale.
Altro che rivoluzione. È arrivato finalmente il cambiamento che tanti nella Chiesa aspettavano. 

venerdì 27 dicembre 2013

A lume di candela

Un balzo indietro negli anni. Di parecchi anni. Per 40 ore il Cadore è tornato al passato, per colpa di un traliccio di alta montagna che non ha saputo reggere a quella neve improvvisa carica di pioggia e vento. Tutti senza energia elettrica. Niente riscaldamenti, niente luce, niente web, niente comunicazioni con il resto del mondo, niente soprattutto cellulari.
Una pacchia. I turisti impazziti, io di gioia. 
Mi ritengo fortunato. La mia generazione ha fatto appena in tempo a scoprire il sapore dell'acqua calda riscaldata al focolare, le stufe a legno, i fagioli cotti al camino, quel freddo tosto ma bello che incuteva rispetto ogni volta che andavamo a trovare i nostri zii in campagna e ci ritrovavamo in stanze buie e sobrie ad avvolgerci nelle coperte di lana. Il senso della festa, della brace e del calore, della notte e della neve che è meglio guardarla dalla finestra, dei racconti di lupi e fattucchiere, di battaglie vinte e di guerre perse, di partigiani e banditi, di donne benedette agli occhi di Dio, del latte appena munto alle cinque di mattina.
Io ho avuto la fortuna di vedere. Di annusare, ascoltare, di tenere freddo. Di stare in silenzio, quando gli adulti raccontavano davanti al vino che riscalda e alle lampade a olio. So accendere un fuoco. Credo di essere uno dei pochi romani che ha un camino in casa.
Ecco perché queste 40 ore passate in Cadore mi hanno rallegrato assai. Ho perfino cominciato a leggere un romanzo a lume di candela, non mi accadeva da anni. Ho imbracciato la mia chitarra, per una volta tanto senza jack. Mi è sembrato bellissima, la mia chitarra unplugged.
Il telefono era muto. Il web non esisteva. La tv un oggetto non pervenuto. Ho acceso il fuoco con la legna del bosco vecchio, bastava. Ho bevuto, mangiato, scambiato parole e silenzi. Bastava. La casa ha accettato quel poco di calore che usciva dal camino.
Per 40 benedette ore solo il rumore del fiume di fronte casa mi ha tenuto compagnia. E i rumori e le orme del cervo che scende di notte a valle per cercare cibo.
Ben trovata, Italia.

venerdì 20 dicembre 2013

Il nuovo che avanza e il mio venticinque


Durante l’attesa del Natale mi fa compagnia sonora e spirituale Officium. Un miracolo, quel disco di Ecm. Spesso accarezza, in sottofondo, le chiacchiere degli amici che vengono a trovarmi nella mia dimora. I canti antichi dell’Hilliard Ensemble sembrano abbracciare il sax stranulato e sognante, e per nulla jazzy, di Jan Garbarek. Fanno danza insieme.
Non è solo un buon prodotto discografico, Officium. È molto di più. È la dimensione dello spirito che trova posto all’inatteso. È il vecchio che non ha paura del nuovo. Da ciò nascono scintille di pura poesia, persino un nuovo ethos fatto di spirito e materia, sicuramente inni di lode al sacro e al profano. O, ancora meglio, al cielo e alla terra.
Penso spesso al miracolo di Officium, proprio oggi che mi ritrovo tra le mani L’infinito viaggiare di Claudio Magris. Saranno le atmosfere nordiche e rarefatte di Garbarek, sarà il Danubio e il Caffè San Marco del triestino Magris, sarà che ogni viaggio geografico è anche viaggio interiore, viaggio dell’anima, la lezione che ne traggo ogni volta è che il futuro da desiderare non ha paura di scoprire nuovi mondi.
Ogni viaggio nell’Oltre, è anche compiuto a piedi. E ogni buon suono contemporaneo ha anche il sapore dell’antichità.
Ecco perché il mio venticinquedidicembre non ha paura del nuovo che avanza. In politica, nella società, nella costruzione di un nuovo ethos condiviso e sognato. Anzi, a dirla tutta, questa musica, questa lettura e questi viaggi mi avvolgono in un desiderio di avvenire che non solo non ha paura dell’Oltre e dell’inaspettato, ma si attende molto da esso.
Il nuovo mi appartiene. Per adesso, almeno, ascoltiamolo.


ps: buon venticinque, dunque, a tutti gli amici sul web. È stato, il 2013, un anno duro, ma bello. Ho cercato di raccontarlo a mio modo. Il 14 gennaio uscirà Sopra ogni cosa. Il Vangelo laico di Fabrizio De Andrè nel testamento di un profeta, il libro che ho curato personalmente con don Andrea Gallo poco prima che lui morisse, il 13 marzo uscirà Chiesa anno zero. Una rivoluzione chiamata Francesco e avete capito di chi parlo, il 2 maggio uscirà invece Il vento soffia dove vuole. Un monaco racconta, un libro scritto a quattro mani con il priore di Camaldoli, dom Alessandro Barban. E, infine, sempre a Pasqua, spero di potere presentare il mio nuovo disco con il progetto Teeg (Trans Europe Express Group).
E, adesso, un po’ di vacanze…siamo in cammino.

martedì 17 dicembre 2013

Il nostro Natale. Tra crisi e sobrietà


È crisi. Nera, nerissima. Non si vede un quattrino in giro. Un Natale duemilatredici da “guerra fredda”, post-ricostruzione bellica. Le vie glamour del centro, luccicanti di vetrine e oggetti desiderabili, diventano specchio dei portafogli vuoti e dei pensieri fragili. Non ci entra nessuno. Eppure hanno abbassato i prezzi. Le camicie si trovano pure a vento euro, quasi quanto i mercatini aggrediti da popolo e borghesia.
Bisogna risparmiare. Punto e basta. È il nuovo lessico della sobrietà che sembra aver rincorso gli italiani in questo ultimo scorcio di anno impunito e iper-tassato. La tredicesima? Chi ce l’ha ci paga l’Imu, chi non ha questa fortuna si inventa storie.
Gli affitti? Non li paga più nessuno. Sono opzionali. Gli stipendi? Un mese sì, uno no, se va bene. Le liquidazioni? Non pervenute. I supermercati? Vuoti. Resistono, in parte, chi vende telefonini, computer e oggetti della comunicazione globale. Solo il web regge. Forse perché ci fa sentire meno soli. In fondo, non costa quasi niente. Specie se la bolletta telefonica la paga mamma e papà.
Si parte per le vacanze. Anzi, si riparte per le “solite” vacanze. Quelle che fino a venti anni fa erano lo status dell’italiano tipico. Si rimettono a posto i muri di una volta. Tutta la famiglia al paesello d’origine, con la casa ereditata dai nonni e il pane fatto in casa, fettuccine all’uovo, e passata di pomodoro rigorosamente autoctona, preparata per tutti, da agosto a settembre. Le vecchie zie ti vengono a trovare con le solite, e buonissime, torte e crostate alla crema. Non mancano salamini e formaggi, quelli del pastore, è chiaro.
Ah, i nonni! Una bellezza, adesso che c’è la crisi. Se non ci fossero loro sarebbero guai grossi. Pagano le bollette, aiutano in silenzio, fanno i baby sitter, accompagnano i più giovani a scuola. Persino negli autogrill dell’autostrada si fanno notare, con legittima punta di orgoglio: a pagare il conto del mesto pranzo “familiare” sono sempre loro.
Benedetti i nonni, dunque. Anima e cuore di un atteggiamento al risparmio che però è stato, un cinquantennio fa, la fortuna dell’Italia. Mentre noi, oggi, non sappiamo neanche cosa sia. Le chimere di un arricchimento facile e di una qualità di vita benevola ci hanno corroso il corpo e la mente, restituendoci l’amara realtà di un’economia allo sbando. Forse anche per colpa nostra. Un po’ creduloni, lo siamo per natura.
Siamo tutti più soli, più poveri, persino più lontani. E ora tornare a essere “quelli che eravamo” è terribilmente difficile. Forse impossibile. Solo cambiando il tempo della perdita del potere d’acquisto con il tempo di una sobrietà liberatoria e giusta, può essere la strada per riappropriarci di un destino nostro e molto, ma molto, italiano.
E allora, in questo sobrio, giusto e meritato Natale duemilatredici, la pasta fatta  in casa torna a essere il grimaldello giusto per smuovere coscienze e cuori. Il sapore del camino acceso, di un incontro di comunità, di famiglia, di amicizia. Rispuntano i mazzi di carte, le tombole lasciate a marcire per troppo tempo negli scantinati e nei sottotetti. Oltre i disordini di questo tempo malandato e furente. Che andrebbe sgridato. E poi abbracciato, come si conviene a ogni figliol prodigo.
Oggi, venticinque dicembre di un duemilatredici che sembra, per mistero e privazione, un venticinque di un millenovecentocinquanta, è l’ultimo giorno di una rincorsa alla felicità che ha dimenticato l’Altro, il “noi” e l’etica della buona speranza.
Non c’è più scampo. Il portafoglio privo di euro scuote la pancia vuota dell’italica gente.
Ma, chissà: forse è anche una fortuna. Più stiamo messi male, più riscopriamo energie nascoste, inventandoci mestieri e riscoprendo l’autoironia.
L’attesa di questo giorno è anche, oggi, attesa di nuove risorse etiche, di tempi diversi dove l'Altro non è più il distante e l’estromesso.
Il futuro che ci sembra di vivere non è mai stato così attaccato a un passato "italico" di sobrietà e onestà, dove gli uomini si riappropriavano della loro libertà costruendo, con le mani, la testa e il cuore, un paese più bello e più solidale.
Buon venticinque, Italia. La svolta comincia da qui.

venerdì 6 dicembre 2013

Nelson Mandela, il gigante che danza con gli uomini


Novantacinque anni di vita vissuta e ventisette anni in prigionia. Cinque milioni di bianchi padroni del Sudafrica, 40 milioni di neri dall’identità negata, mai registrati in alcuna anagrafe. Sono queste le cifre che raccontano chi sia stato, e chi è ancora, Nelson Mandela.
Il vero gigante della libertà, della giustizia e dei diritti umani, che ha saputo dare al secolo passato, il Novecento, una testimonianza fondamentale: la difesa non violenta della dignità umana.
Oltre l’Europa, persino oltre l’America dei diritti e delle opportunità. Ha saputo riscattare la storia del suo continente, mamma Africa, e il colore della sua pelle, il nero, facendo breccia nell’immaginario occidentale orfano di profeti e uomini politici da seguire.
Madiba, colonizzato per definizione, è riuscito invece a colonizzare “noi” e il nostro tempo, con il suo esempio e con una parola che, a dirla tutta, è stata praticata poco dalla cultura occidentale europea e americana: riconciliazione.
Sì, riconciliazione. Perché l’apartheid non si sconfigge da soli, o con un’insurrezione armata. Perché è stato possibile, dopo il sogno di Martin Luther King e Malcom X, che sì, è possibile vivere insieme bianchi e neri, poveri e ricchi, lavoratori e scansafatiche.
L’anima che ha accompagnato Nelson Mandela in giro per il mondo è stata la musica, il grimaldello giusto per aprire le porte del riscatto e della libertà. Un’anima meticcia, popolare, underground, blues, dove batteva il sound africano, quello vero. La musica lo ha trascinato via da quella cella e la musica lo ha celebrato prima della sua liberazione, prima che venisse conosciuto dal mondo. Quella grande musica africana che lo aveva già riconciliato con i suoi aguzzini.
Comincia Peter Gabriel, l’ex leader dei Genesis, con Biko, dedicato all’angelo nero della non violenza in Sudafrica. Nel 1970, Biko fondò il Black Consciousness Movement, movimento che puntava a sfidare l’apartheid non con le armi. Dopo, c’è solo lui, Nelson Mandela.
Il rock esplode di ritmi “neri”. Suonano per Madiba Bruce Springsteen, Bob Dylan, Lou Reed, Peter Gabriel, Jackson Browne, e Bono, leader degli U2. Il senegalese Youssou N’Dour titola Nelson Mandela il suo primo album distribuito negli Usa e l’11 giugno 1988, allo stadio londinese di Wembley, si celebra il Mandela Day. L’organizzazione dell’evento è affidata a Jerry Dammers degli Specials e Jim Kerr dei Simple Minds, che sul palco presentano un’altra canzone simbolo composta per l’occasione, Mandela Day. La grande musica abbraccia il gigante della libertà e della non violenza: Carlos Santana, Tracy Chapman, Dire Straits con Eric Clapton, Stevie Wonder, Sting, George Michael, Eurythmics, Joe Cocker, Phil Collins, Peter Gabriel. Da quel giorno, il meglio della musica mondiale celebra la parola freedom attraverso il volto e l’esempio di Nelson Mandela.
Ieri sera, dopo la notizia della sua morte, ho messo su un po’ di musica africana. Bellissima. E già mi immagino, oggi, in Paradiso, gli angeli che cantano portando per mano il volto felice e sorridente di Madiba. Il gigante che danza con gli uomini.

giovedì 21 novembre 2013

Noi, l'America e Kennedy


Quell’immagine di un’automobile che porta via il corpo accasciato del Presidente degli Stati Uniti d’America fa parte, ancora oggi, di una storia che ha cambiato il mondo. È il 22 novembre 1963 quando a Dallas veniva ucciso John Fitzgerald Kennedy. Le immagini girate dal cineamatore Abraham Zapruder parlano da sole: 26 secondi e 486 fotogrammi che raccontano in super 8 il momento nel quale l’America ha perso il suo Presidente e forse la sua invulnerabilità.
Ci sono intere generazioni di persone che sono cresciute nel mito “kennediano” dei primi anni ’60. Un tempo favorevole per la crescita economica e sociale, ma anche per tutte quelle libertà individuali che l’America, appunto, viveva sulla propria pelle. Con l’avvento di Kennedy e dello stile-Kennedy – ottima oratoria, sorriso, simpatia, popolarità – arriva una ventata di freschezza nella politica mondiale che cambia letteralmente l’immagine stessa della politica: l’on the road, e temi come la giustizia economica, la libertà di espressione e di religione, la lotta alle povertà, diventano il nuovo lessico di un ethos pubblico che ha voglia si svegliarsi da una guerra passata e da una nuova guerra fredda Usa-Urss alle porte che sembra aver diviso il mondo in due parti. Fino a quella ricerca ostinata della pace, molto probabilmente causa dell’attentato stesso.
Anni bellissimi, quelli. Gli anni dei Beatles. E di John Fitzgerald Kennedy, capace di incollare la gente a un televisore o alla radio attraverso le sue parole sui diritti fondamentali di ogni uomo che anche l’America, sì, l’America libera, doveva approfondire.
Con papa Giovanni XXIII e Nikita Kruscev, segretario del partito comunista russo, formano una leadership per una nuova speranza. L’11 aprile del 1963 Giovanni XXIII pubblica l’enciclica Pacem in Terris. Non un’enciclica qualunque: qualche mese prima, nell’ottobre del 1962, c’è la grave crisi di Cuba tra Usa e Urss e i venti di guerra soffiano forte. Le navi sovietiche si avvicinano pericolosamente alle navi americane con il rischio di un’apocalisse nucleare, quando il papa “buono” invia un messaggio a Kennedy e a Kruscev che fu letto alla radio. I governanti – invoca il papa – «facciano tutto ciò che è in loro potere per scongiurare la guerra… Promuovere, favorire, accettare trattative a ogni livello e in ogni tempo». A Mosca la Tass riprende subito il testo del messaggio e la Pravda gli dedica un intero articolo. Il giorno dopo Kruscev invia a Kennedy la lettera risolutiva della crisi che propone il ritiro dei missili da Cuba in cambio della garanzia a non invadere l’isola.
È la vittoria della vita sulla morte. Della speranza che la politica può fare qualcosa, se solo volesse. E oggi, a 50 anni di distanza da un omicidio che ancora non vede punire i responsabili e che comunque ha sconvolto la storia, il volto sorridente di John Fitzgerald affascina ancora chi lo guarda.
Un sogno che si è fermato? Forse. Certo è che senza John Fitzgerald Kennedy oggi noi non saremmo “noi” e l’America, forse, sarebbe diventata un tiranno “democratico”.
Il debito che abbiamo tutti con il liberal Kennedy è immenso. Di progettualità politica, di futuro, di democrazia. Forse, solo adesso, cominciamo a rendercene conto.

mercoledì 20 novembre 2013

Le tre sfide di Francesco


C’è chi parla di nuova evangelizzazione. Chi di “nuova era” della Chiesa cattolica. Chi del ritorno al Concilio Vaticano II. Ancora, c’è chi dice che la Chiesa, finalmente, ha ripreso a dialogare con il mondo. Certo, papa Francesco sta rivoluzionando a modo suo la teologia e la pastorale della comunità ecclesiale: i suoi gesti, le sue parole, e le sue decisioni in ordine a cambiamenti radicali nella struttura organizzativa della Chiesa fanno discutere chi non è d’accordo e gioire chi questi cambiamenti li sognava da tempo.
Il C8, gli otto cardinali scelti da Francesco per ridisegnare il volto della Curia, sono al lavoro; la riforma dello Ior, la banca vaticana, è ben più di un progetto, quasi una realtà. Francesco ha chiesto alla Cei, la Conferenza episcopale italiana, una riforma della sua organizzazione, oggi troppo elefantiaca e costruita più per un clero in contrapposizione con tutto quello che c’è “fuori” e quindi capace di mediare rendite di posizioni con la politica. La riforma non tocca solo l’organizzazione interna della Cei ma va a incidere profondamente anche nei gangli della pastorale e dell’impegno missionario delle diocesi. Uno snellimento di esse, infatti, è previsto. Sono 226 in Italia: troppe agli occhi di Francesco e del nuovo segretario di stato Parolin. Sprechi inutili, soprattutto economici. Come inutile sembra essere il perpetrarsi di uno status ecclesiale forgiato però in tempi diversi dall’attuale. Anche se la Cei fa sapere che i criteri che si riferiscono all’eventuale taglio delle diocesi riguardano il numero degli abitanti, l’estensione territoriale, le particolari tradizioni di radicamento religioso.
Una riforma che sarà presentata a gennaio: nel maggio del 2014 avremo un nuovo presidente della Cei eletto direttamente dall’assemblea dei vescovi italiani e non dal papa e anche a breve un nuovo segretario generale, visto che mons. Mariano Crociata è stato eletto vescovo della diocesi di Latina-Terracina-Sezze-Priverno. Non è cosa da poco per le vicende storiche del cattolicesimo in Italia.
Per mons. Crociata, persona mite, intelligente e preparata, ex vescovo di Noto e già collaboratore del promettente arcivescovo di Monreale Cataldo Naro, prematuramente scomparso nel 2006, si tratta evidentemente di una diminutio, anche se il prelato ha accettato la nomina in spirito di servizio e obbedienza. Nominato da papa Benedetto XVI nel settembre 2008 segretario generale della Cei, ha coordinato la pastorale della Chiesa italiana in anni difficili e di transizione, prima con l’accoppiata Bagnasco-Benedetto e oggi con Francesco. I suoi predecessori sono stati più “fortunati”: Ennio Antonelli e Giuseppe Betori sono andati a Firenze, Camillo Ruini a Roma, Dionigi Tettamanzi a Genova. Tutte sedi cardinalizie.  Francesco, con l’aiuto di Parolin, sta entrando di peso nella questione “Italia” e dopo aver suggerito alla Cei di nominare un semplice prete come segretario generale, in spirito di servizio e non come trampolino di lancio per future carriere ecclesiali, ha iniziato a imporre, in maniera non più soft, uno stile diverso anche all’interno della più complicata e grande organizzazione ecclesiastica del mondo. La nomina “vescovile” di mons. Crociata, comunque importante, rende chiaro a tutti in quale direzione voglia muoversi la riforma voluta da Francesco. Una riforma che intende “liberare” i tanti segni profetici della Chiesa italiana nell’aiuto ai bisognosi e nell’annuncio di una Parola accogliente che accarezzi il volto di tutti.
L’impressione, a volte, è che la Chiesa italiana fatichi a sintonizzarsi al nuovo corso. Eppure il papa era stato fin troppo chiaro nel suo primo incontro con i vescovi italiani riuniti a Roma per l’assemblea della Cei. «La mancata vigilanza – secondo Francesco – rende tiepido il pastore, lo fa distratto, dimentico e persino insofferente; lo seduce con la prospettiva della carriera, la lusinga del denaro e i compromessi con lo spirito del mondo; lo impigrisce, trasformandolo in un funzionario, un chierico di stato preoccupato più di sé, dell'organizzazione e delle strutture, che del vero bene del Popolo di Dio. Si corre il rischio, allora, come l’apostolo Pietro, di rinnegare il Signore, anche se formalmente ci si presenta e si parla in suo nome; si offusca la santità della Madre Chiesa gerarchica, rendendola meno feconda».
Le sfide che Francesco ha davanti a sé sono essenzialmente tre: una riforma interna della Chiesa, la sua missione nel mondo, il ruolo del ministero petrino. E se per la riforma interna, forse la più difficile da applicare, ha istituito una commissione apposita, per la nuova evangelizzazione e il ruolo del papa parlano le sue parole e i suoi gesti pieni di umanità.
È indubbio che l’evangelizzazione e la missionarietà dell’annuncio della Parola di Dio è il punto di svolta dell’attuale pontificato. Il mondo e i popoli hanno bisogno di speranza. La Chiesa universale come vorrà abbracciare questa speranza? Tenerezza, misericordia, perdono, attenzione alla sofferenza: sono questi i termini di un nuovo lessico della speranza dove credenti e non credenti possono abbeverarsi senza paura di perdere i propri riferimenti religiosi oppure sentirli troppo aggressivi.
Una missionarietà che torna a pescare slanci e sentimenti nella collegialità, nella comunione, nella sinodalità. Sono queste le parole chiavi per comprendere la riforma che papa Francesco vuole imprimere al governo della Chiesa. Una riforma che dovrà appoggiarsi a un apparato organizzativo limpido, trasparente, sobrio ma che trae linfa vitale dall’autorità petrina che è “costretta” a collaborare con le Chiese locali e con il laicato.
Non un sommo pontefice che comanda, ma un Petrus che attua i consigli della grande Chiesa universale. In compagnia dei fratelli vescovi.