Visualizzazioni totali

lunedì 17 dicembre 2012

Alla ricerca del giorno prima


Racconto di Natale



Il violino di Ion Stănescu sembra uscito fuori da un film di Emir Kusturica o da qualche fotogramma della banda multiculturale e girovaga che ha reso grande una delle pellicole più belle degli ultimi anni, Il Concerto, del regista rumeno-francese Radu Mihăileanu. È davvero straniante il suono del suo violino. Moni Ovadia racconta che l’unica spiegazione a tale virtuosismo incredibile risieda nel fatto che solo i popoli esiliati e perseguitati, chi ha percepito il dolore sulla propria pelle, possono avere una forza misteriosa e naturale che risiede nell’anima ed esce “fuori”, così, all’improvviso. Ebrei e rom, in ciò, sono maestri. Come lo sono palestinesi e popoli balcanici, abituati a scappare, lottare, difendersi. Lui, Stănescu, madre rom e padre ebreo, lo trovi primo violino nelle grandi orchestre sinfoniche della musica ungherese e rumena, e nello stesso, con il cappello in mano, a suonare musica nelle strade e nelle metropolitane delle nostre città. Solo per il piacere della musica. Così come Marian Serban, al cymbalon, altro strano strumento dal suono percussivo-melodico. Marian ne è maestro: ascoltarlo nelle piazze romane è un godimento. Come folgoranti e molto gipsy sono le note di Albert Florian Mihai su una fisarmonica suonata a una velocità strabiliante, con variazioni jazzistiche e uso dei tempi dispari che fanno arrossire tanti musicisti molto più famosi di lui.
Insomma, la musica. Perché la musica, quella vera che interroga l’anima e percorre i cammini dei popoli, è una delle arti “spiritualmente nobili” che restituisce al mondo l’amore per la verità storica. Senza confini. Ebrei e zingari, il concerto-spettacolo di Moni Ovadia che ho avuto modo di ascoltare a Solomeo, un borgo umbro disincantato e arroccato sulla filosofia e sulle domande di senso che il silenzio e l’architettura-tempo-spazio rende vivibile all’uomo moderno, con la sua orchestra itinerante e sgangherata fatta di rom, ebrei e italiani in bilico tra Antico Testamento e terre del Sud, è un piccolo ma appassionato contributo alla battaglia contro ogni razzismo e ogni violenza. Una sorta di testamento biologico. Andrebbe proiettato nelle scuole, ascoltato nei locali del jazz borghese e del blues popolare. Rom ed ebrei, i due popoli fratelli, a lungo hanno marciato fianco a fianco nella sorte, ma dopo la persecuzione nazista, le strade si sono divise. Gli ebrei hanno cambiato in meglio la loro storia, il popolo rom invece molto spesso continua a subire il calvario del pregiudizio, dell’emarginazione.
            Un miracolo che, a volte, solo la musica riesce a fare. Ma il popolo emigrante ha anche i contorni di una terra contesa e di un credo che recita Padre a ogni lingua e indicazione geografica. Mi è capitato di ascoltarlo, di notte, come un’eco (stra)-niante, (e)-stranea, il Pater. Recitato a occhi chiusi da Moni davanti ai suoi musicisti che bevevano in allegria. In ebraico, l’antica lingua. Perché davvero il Pater è di tutti. Una follia lessicale che sprigiona profumo di Dio. E insieme benedizione. Così come l’ho ascoltato lì, nella terra della sabbia e del deserto dove il flauto nay e la darabouka la fanno da padroni.

Da Nazareth a Gaza, sulle orme di Dio
Marco, piccolo fratello di Jesus Caritas di Charles de Foucauld, vive a Nazareth da parecchi anni. Piccolo fratello di altri piccoli fratelli e cittadini di una città povera, poverissima. Studia l’arabo, e anche a Nazareth, nella Nazareth palestinese, c’è tempo e spazio per un organo che tenta litanie spirituali che abbracciano la ricca tradizione arabo-cristiana. I canti dedicati a Maria e al Pater sono di una bellezza sconfinata. Le lingue arcaiche ne addolciscono il rispetto che si deve loro: l’aramaico, e il sabir, l’antica lingua franca del Mediterraneo. Non è forse suor Marie Keyrouz, cristiana coopta libanese, con la sua voce celestiale, una delle più grandi interpreti di canto sacro di tutto il mondo arabo? Ma è così difficile andare d’accordo in una striscia di terra dove lo spazio e la dignità ce ne sarebbe per tutti? E perché solo la musica sembra riesca a sopravvivere al rigido dispiegarsi delle armi?
Marco vive lì. È con loro. Riguardo l’ultima sciagurata crisi di due mesi fa riesce a dire: «Ora è iniziata una nuova offensiva con il nome, dal sapore biblico di “colonna di Nube”. La colonna di nube era quella che guidava il popolo di Israele nel suo peregrinare nel deserto, il segno della bontà di Dio che conduceva il suo popolo (Es 13,21). E ancora una volta Dio viene usato per sporchi interessi, da una parte e dall’altra e a rimetterci è ancora una volta la povera gente, gli innocenti. Certamente non possiamo dire, in tutta verità, che il confronto è alla pari. Già a pochi giorni dall’inizio della nuova offensiva e della controffensiva i morti palestinesi sono sull’ordine delle decine (con molti civili e già alcuni bambini), mentre quegli israeliani sono fermi a poche unità. Con questo non si giustifica nulla, perché un morto è già troppo. Però non possiamo dimenticare il rapporto uno a cento tra le vittime palestinesi e israeliane della scorsa guerra di Gaza (1400 circa contro 14 circa). Anche i numeri, purtroppo, in questo caso hanno il loro peso. Una domanda che nasce qui, vicini al campo di battaglia è: chi ha iniziato? Una domanda che non ha più senso e che dovrebbe essere superata perché, finché ci si porrà questa questione non si finirà mai di fare la guerra. L’unica cosa che ha senso è la ricerca incondizionata della pace».

Siamo noi, pasciuti di Occidente, la colonna di stranieri in fila fuori all’ultimo sportello
Raccolgo i ricordi di un anno pieno a pochi giorni dal Natale. Da questo Natale di tagli alla spesa sociale, di ospedali costretti a chiudere i reparti perché i tagli sono arrivati, eccome, e solo adesso la gente se ne accorge, di Imu e spread, di dibattiti familiari su Bersani e Renzi, di Berlusconi che torna, di una Chiesa che sembra delle volte far fatica a comprendere, non dico accettare del tutto, l’immensa carica profetica del Concilio Vaticano II. È stato un anno difficile. La povertà, quella vera di chi non riesce ad arrivare a fine mese, per la prima volta dai tempi dei racconti di mio padre è giunta nel mio quartiere. C’è un’umanità sofferente e diseguale che arranca i nostri confini di asfalto e di censo. Le richieste di aiuto alla mia parrocchia di gente che non ce la fa a tirare avanti è aumentata in modo esponenziale. Anche un pacco di pasta lenisce le ferite. C’è una follia economica e antropologica che divide e devasta, alla quale non facciamo nessuna opposizione. Il mio compagno di strada di quest’anno, don Tonino Bello, scrisse di un Natale quasi come questo che stiamo vivendo. Chiamò la lettera Auguri scomodi. E allora auguri scomodi a chi si trova comodo sulle strade del mondo. E auguri sinceri a chi oggi viaggia sul treno della scomodità. I trans e le prostitute che ho incontrato andando in giro di notte con don Gallo a Genova mi sembrano le donne che troviamo traccia nella scrittura sacra. Come i “folli” di Dio che continuano a crescere in un paese che ha saputo delegittimare, nel tempo, una grande conquista civile come quella di Franco Basaglia in deriva ideologica-istituzionale della malattia mentale.
Ricordo una bella frase di Erri De Luca, con il quale ogni tanto ho la fortuna di condividere parole prosciutto e vino, quando, tempo fa, regalò al mio giornale queste parole: «Nascesse oggi  sarebbe in una barca di immigrati insieme a Maria, gettato a mare in vista della costa di Puglia o Calabria. Forse continua a nascere così, senza sopravvivere, e il venticinque dicembre è solo il più celebre dei suoi compleanni. Dopo di lui il tempo si è ridotto a un frattempo, a una parentesi di veglia tra la sua morte e la sua rivenuta. Dopo di lui nessuno è residente, ma tutti ospiti in attesa di un visto. Siamo noi, pasciuti di Occidente, la colonna di stranieri in fila fuori all’ultimo sportello».
È il nostro Natale, dietro il mare dell’indifferenza.

Eppure c’è qualcosa che mi dice che non è sempre così. Sarajevo, la città dei minareti e delle moschee, delle croci e delle icone, delle sinagoghe e della stella di Davide, sembra un grande suk dove uomini di fedi ed etnie diverse tentano di vivere un nuovo lessico universale che ha i colori del futuro. Shalom, inshallah, pace. I nomi segreti di Dio della Bibbia, della Torah, del Corano hanno il volto della pace. Eppure Sarajevo ha conosciuto il volto più sanguinario della guerra. Vent'anni fa, fratello contro fratello, popolo contro popolo. Don Tonino Bello, profeta di pace, era sbarcato da queste parti in un lontano dicembre del 1992, in una Sarajevo assediata dalle bombe e dal tiro dei cecchini. Faceva freddo, c'era la neve. Volle venire qui, in questa terra sospesa per incanto tra Occidente e Oriente, insieme ad altri 500 innamorati della parola pace, per un segno di speranza. Il popolo del burek e dei cevapcici, del kajmak e del caffè bosanska kahva, quel popolo che ascolta la musica balcanica e gitana di Goran Bregovic ma anche le melodie arabe dell’oud, che è abituato a parlare un esperanto di lingue diverse, ebbene quel popolo capì. Abbracciò quel segno di antica alleanza.
Sono passati vent'anni. Anni che ormai si aggrappano a un processo di integrazione europea che sembra davvero essere a portata di mano. Vivere insieme è il futuro: è questa la parola d'ordine. E poi riconciliazione dei cuori. E processo politico di integrazione verso l'Europa che ha bisogno, oggi, di nuova forza.
Sarajevo è già domani. Una chance di futuro possibile che potrebbe aprire una porta per un dialogo nuovo tra Mediterraneo e Mitteleuropa.
Solo la pace può osare tanto, sulle orme del volto di Dio.


Il silenzio di Dio, da Santiago de Compostela a Bose
Lino, con la sua corporatura robusta, è messo a guardia all’entrata della Comunità di Bose. Con la barba sobria e i suoi modi sbrigativi, sembra davvero uno di quei monaci ortodossi di cui la comunità fondata da Enzo Bianchi ne coltiva amicizia e dialogo nella fede comune. Accoglie gli ospiti, spesso fa da filtro con chi vuole mettersi in comunicazione con fratel Enzo. Ma è l’unica persona che io conosca che mi dà, regolarmente, delle indicazioni così precise e competenti riguardo la musica “dell’anima”. Un Natale diverso e più in sintonia con il proprio essere non può lasciare nel dimenticatoio, sono sempre suggerimenti di fratel Lino, alcuni dischi usciti ultimamente, ovviamente sempre prodotti dall’inossidabile Ecm. Si tratta dell’arpista Arianna Savall, la figlia del grande Jordi, con il suo Hirundo Maris, splendido atlante sonoro di un Mediterraneo e di un mare del Nord dove la parola pace trova comprensione. Ma non poteva mancare il ritorno in grande stile di Arvo Pärt, con il suo Adam's Lament, strepitoso affresco dell’inconscio e del silenzio che dà il meglio di sé quando ascoltato, come sempre, all’ora del tramonto e a volume consistente, insieme a una collection per spiriti in ricerca, di Valentin Silvestrov, Sacred Songs.
Penso che il silenzio delle altezze aiuti la composizione di grande musica. L’ho notato anche sulle Alpe di Siusi. Un autentico paradiso terrestre, il più grande altipiano d'Europa che gli altoatesini si tengono ben stretto con le loro regole di eco sostenibilità e rigore nei confronti del turismo di massa. Qui sono vietate le automobili, si vive davvero a passo d'uomo, e le malghe hanno ancora l’odore dei contadini che mungono latte.
C'è anche la musica, regina delle valli. Quattro corni alpini regalano in alta quota note celestiali al ritmo di grappini, birra e canederli. Sarà una mia fissa, ma penso che, insieme ai tamburi, il sax di giuntelliana memoria, le cornamuse celtiche e il nay mediorientale, anche i corni alpini meritino un posto nel paradiso che ci attenderà. A due passi c'è anche il violoncello di Mario Brunello, costruito sui legni degli abeti della foresta di Paneveggio e non ho dubbi che lo stupendo suono del violoncello sia di grazia, non solo nelle notti alpine levigate dal vento e dalle onde sonore degli abeti di Paneveggio, ma anche tra i lembi di cielo dove Dio ha casa. Ma mi piace pensare che anche i corni alpini trovino posto nella musica del cielo.

La musica mi insegue ovunque, in questo fine 2012. Mi tornano in mente le litanie popolari che ho ascoltato nel Cammino di Santiago di Compostela, quando, solo due anni fa, accompagnavano i miei lunghi silenzi attorniati dagli spazi sconfinati e dalle pedalate altrettanto faticose. Il Camino andrebbe fatto, almeno una volta nella vita. Il bacalhau portoghese, condito con il sapore della meseta spagnola, così come il pulpo galleco, bagnato dall’olio a crudo e mantecato con il rumore di Atlantico e mari del Nord, più che le chiese costruite dai templari, mi indicavano a ogni passo il cammino da intraprendere. La direzione, appunto. Una guida di odori e spezie, di sudore e poche parole, con il suono della gaita a far da sottofondo sonoro.
Senza cellulari, mappe geografiche, tablet, navigatori satellitari.
Il silenzio dell’Avvento, il gusto dell’Attesa.

Nel tempo delle frammentazioni, il gusto dell’Attesa
Attendo Natale guardando a est. La parola sacra spesso mi fa stare a ovest, il tempo di occidente, del raccolto, dell’attesa guadagnata. Il tempo del tramonto, del sole che scende a mare, della parola ascoltata e condivisa. Di due che è sempre il contrario di uno. Eppure, nonostante l’ovest biblico, ho accanto a me rifugio di levante, quello che Erri De Luca chiama «l’ora prima”.
Il kairos, nuovo tempo di oriente e del primo mattino, dove cielo terra notte e giorno sembrano toccarsi, aspetta nuovi passaggi di tempo. Come mi suggerisce dom Alessandro Barban, giovane priore dei camaldolesi sui mille e passa dell’eremo di Camaldoli, concede vita.
Adoro questo tempo nascosto e ancora di ombra. Dove il silenzio non è abbandono delle cose del mondo ma abbraccio con la madre terra.
Mi restituisce lentezza. Mi consiglia transumanza.
È il tempo vero dell’Attesa, sospeso come un giocoliere tra il già terreno e il non ancora biblico, tra la luce del mattino e il buio della sera.

Ecco, in questa infinitesimale frazione di tempo, mi pare di sorridere. Una piccola frazione di sorriso, che dà gusto alla mia esistenza.
Sto in un’Attesa che ancora mi consola nel tempo delle frammentazioni e delle corporazioni.
Oggi, ventiquattro dicembre duemiladodici, pasciuto d’occidente, intorno alle ore cinque del mattino, attendo attimo di levante con un bicchiere di vino di quello buono.
Del resto, tutti dormono. E quando tutti dormono, si possono fare le cose migliori.
È tempo di provarci.


ps: tra il Camino di Santiago e Jerusalem, Sarajevo e Trieste, tra i silenzi di Bose, l’abbazia di Sassovivo e l’eremo di Camaldoli, ho avuto una bella compagnia che mi ha fatto gustare l’”ora prima”. Alessandro Barban, Tonino Bello, Enzo Bianchi, Erri De Luca, Andrea Gallo, Paolo Giuntella, Moni Ovadia, Paolo Rumiz, Vauro Senesi, Giancarlo Sibilia. A loro, il mio inchino e il vino migliore.

martedì 9 ottobre 2012

Avrei voluto essere lì, quella sera dell'11 ottobre...


Avrei voluto essere lì quella sera dell’11 ottobre, in piazza San Pietro. Forse avrei avuto, oggi, qualche capello bianco in più, ma l’immagine e la cronaca di quei giorni ancora mi rincorrono, come se non volessero mai perdersi. La mia generazione appena post-conciliare ha letto molto del Concilio Vaticano II, ha ascoltato i racconti di chi c’era stato e di chi sognava una Chiesa nuova e piena di speranza. E ha imparato a sognare.
Avrei voluto essere lì quella sera. E vedere i vescovi di tutto il mondo con i loro abiti liturgici vestiti a festa mescolarsi ai fedeli di altrettanti mondi, strade, viottoli e certamente anche sagrestie. Una folla di umanità che traghettava la Chiesa sulle sponde del dialogo e dell’amicizia con il mondo. Per i nati dopo l’11 ottobre del 1962 tutto è stato diverso. Non sappiamo forse cogliere appieno il fascino pieno di mistero del canto gregoriano o di un latino che comunque era memoria e tradizione, e sicuramente abbiamo un’idea del sacro lontana dalla sua purezza che invita, ancora oggi, all’intimità con Dio. Ma, se gran parte di quella generazione, oggi, crede, tra incertezze e dubbi, è perché la Chiesa universale ha avuto il coraggio di condividere un Concilio per riformare se stessa. E perché, lì, in quel dato preciso momento storico, il mondo ha conosciuto Giovanni XXIII, il papa della porta accanto, dei sogni sulla profezia e della paternità e fraternità. E la Parola si è fatta Storia.
Se la fiamma della fede non si è ancora spenta in questo tempo barbarico che stiamo attraversando, è per questo desiderio mai sopito nelle coscienze di poter vivere, un giorno, un altro 11 ottobre. Il giorno in cui la Chiesa si spoglierà dei suoi abiti pontificali indossando il saio della sobrietà, il giorno in cui la bellezza e il sorriso si scateneranno contro i mercanti del tempio, l’ora in cui la Chiesa sarà di nuovo compagna e amica di un uomo alla ricerca del suo Dio.
Già oggi la Chiesa è, in larga parte di essa, speranza e profezia. Non siamo così sciocchi dal non pensarlo. Ma noi continuiamo a sognare. A desiderarla migliore. E a innaffiare il fiore rosso della speranza per chi verrà dopo di noi, che godrà di un altro 11 ottobre. E quel giorno, solo quel giorno, quando le nubi si sveleranno in una nuova aurora, anche noi, pietre di scarto di un tempo difficile e disorientato, troveremo benedizione nella pace dei giusti.

giovedì 4 ottobre 2012

Altissimo onnipotente buon Signore...


"Altissimu, onnipotente bon Signore,
Tue so' le laude, la gloria e l'honore et onne benedictione.

Ad Te solo, Altissimo, se konfano,
nullu homo ène dignu te mentovare.
Laudato sie, mi' Signore cum tucte le Tue creature,
spetialmente messor lo frate Sole,
lo qual è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de Te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si', mi Signore, per sora Luna e le stelle:
in celu l'ài formate clarite et pretiose et belle.
Laudato si', mi' Signore, per frate Vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale, a le Tue creature dài sustentamento.
Laudato si', mi Signore, per sor'Acqua.
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.
Laudato si', mi Signore, per frate Focu
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.
Laudato si', mi Signore, per sora nostra matre Terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti fior et herba.
Laudato si', mi Signore, per quelli che perdonano per lo Tuo amore
et sostengono infrmitate et tribulatione.
Beati quelli ke 'l sosterranno in pace,
ka da Te, Altissimo, sirano incoronati.
Laudato s' mi Signore, per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullu homo vivente pò skappare:
guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no 'l farrà male.
Laudate et benedicete mi Signore et rengratiate
e serviateli cum grande humilitate".

Nel giorno di San Francesco l'antico inno di sobrietà e di bellezza della carità cristiana giunge fino a noi come lavacro salvifico della sporcizia che attraversa il paese. Serviranno anni per pulire l'immondezzaio chiamato Italia.  Servirà tornare all'educazione che i nostri genitori ci tramandavano in campagna e attraverso i mestieri artigiani. Servirà tornare ad ascoltare i rintocchi delle campane nei giorni della festa e del lavoro. E scavare la terra, dissodarla, innaffiarla, aspettarla. Per nuova vita e nuova speranza.

martedì 18 settembre 2012

Lo scandalo della politica e il prezzo della vergogna


Ci immaginiamo l’umore dell’operaio che torna a casa la sera stravolto dalla fatica mentre percorre i suoi ultimi chilometri da pendolare. O l’artigiano e il commerciante che vedono, ogni giorno, allontanarsi l’ombra dei clienti (una volta) fissi. O il padre di famiglia alle prese con le rate dell’Imu, con i libri scolastici da comprare per i propri figli e con i consumi di luce e gas da pagare. Ci immaginiamo l’umore. Ma, forse, dopo l’ultimo e vergognoso scandalo della politica che coinvolge la Regione Lazio, avvertiamo che il sentimento di rassegnazione per la recessione economica che un pezzo d’Italia “normale” vive sulla propria pelle ogni giorno, diventa, ora dopo ora, rabbia e senso di nausea per la vergogna di una politica corrotta che non ha prezzo, né limite.
Non è cambiato molto in quest’ultimo decennio nell’amministrazione della politica. Malgrado la stagione di Tangentopoli, la politica del belpaese ha vissuto di rendita, status, privilegi finanziari e burocratici rispetto all’Italia “qualunque” che tira avanti la carretta e che, oggi, rischia di non arrivare a fine mese. La periferia dell’impero (regioni, comuni, provincie…), volutamente non controllata, ha moltiplicato il costo del centralismo burocratico-statale all’infinito: un costo enorme fatto di soldi (dei contribuenti) sperperati al vento e di inefficienze e irresponsabilità amministrative che stanno regalando all’anarchia totale e all’attenzione interessata dei “furbetti del quartierino” il bene-Italia.
Oggi “er Batman” di Anagni, ieri “lo squalo” di sbardelliana memoria. Oggi il Lazio, poc’anzi la regione Lombardia. Oggi il Pdl, appena ieri la Lega, fino alla Margherita. La gente non ne può più. E ha ragione. Non è questione solo di ostriche e champagne, di suv e macchine blu, di belle donne (“gnocche” è la terminologia esatta mutuata dallo slang romano che ha varcato i confini nazionali) e personaggi da cinepanettone di Natale che, ahinoi, dovrebbero amministrare il bene pubblico, di case affittate con i soldi dei contribuenti e di consiglieri pagati a peso d’oro. Il problema vero è che la politica non sa trovare la parola “the end” a un film che la gente comune sta vedendo troppe volte, con l’eccezione dell’attuale governo Monti che, almeno in fatto di etica e trasparenza, ha invertito il trand nazionale.
Non c’è tempo da perdere per replicare al senso di ripugnanza che la maggioranza degli italiani sente arrivarsi addosso. Forse la politica ha ancora un’ultima chance. L’approvazione di una legge anticorruzione per la sfera pubblica in tempi brevissimi è oggi un imperativo categorico, quasi più importante dell’andamento dello spread. Ma è tutta la politica che dovrebbe essere regolamentata: il limite ai mandati pubblici rappresentativi, il rinnovo della classe dirigente, la democrazia interna ai partiti, la trasparenza dei bilanci, finanzi alla responsabilità oggettiva della politica. Se un medico sbaglia, paga. Perché non un politico?
Ora o mai più. Ma una regolamentazione della politica è solo la prima pietra di una casa che ha molti mattoni. C’è un enorme vuoto etico da costruire (di nuovo) insieme: un ethos dei diritti e doveri di cittadinanza perso in questi anni dietro l’illusione dell’uomo salva-tutto, complice un’opposizione politica che ancora oggi litiga per le primarie invece di presentare un progetto serio e innovativo per il paese.
Invece di contarsi per schieramenti e uomini, per capacità di leadership e aggregazioni future, è arrivata l’ora dei programmi e delle cose da fare. E il mondo cattolico non può star fermo a guardare.