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mercoledì 17 dicembre 2014

Il "nostro" Natale della porta accanto

Questo Natale duemilaquattordici ci sta davanti con le sue palline colorate e la crisi economica. E lo scontro tra la solitudine e l’ingordigia delle città d’occidente che sembrano vivere la precarietà, etica e sociale, come momento di un passaggio epocale, dove ognuno di noi fa i conti con il proprio bilancio familiare, si appoggia al tepore di una liturgia inconsueta, che porta, con leggerezza, la Buona notizia.
Il viaggio della fede e del pane di Giuseppe e Maria, e poi del loro figlio Gesù, in un Natale che sembra quasi un esodo biblico per le dimensioni della recessione e le inevitabili ricadute sulle già incerte fragilità esistenziali, appare ai nostri occhi come il cammino da compiere.
Da fare a piedi, e ascoltando la Parola. Ci viene da pensare a un Natale della porta accanto – ce lo ricorda don Tonino Bello con la sua Maria della porta accanto –, il Natale del pianerottolo di casa, del dialogo tra generazioni, dell’incontro con l’ospite inatteso, di chi si spezza la schiena di lavoro per portare a casa dignità e sostentamento. La festa privilegiata di chi, di solito, non fa mai festa. Perché condannato, povero, allontanato, perché senza lavoro. Perché orfano di parole tra gli uomini.
Una liturgia accogliente dove Gesù che nasce è angelo custode e stella cometa del prosieguo di un cammino accanto all’umanità che ascolta il respiro del lontano. 
Colui che si mette in cammino, l’Altro da noi, per terra e per mare, in cerca di approdi di grano e paglia, porta già con sé il soffio dello Spirito che consola, protegge, allatta.
In viaggio, sui passi dell’immigrato di nome Gesù. Con i viandanti in fuga da Erode, Giuseppe e Maria. «Nascesse oggi – scriveva tempo fa Erri De Luca – sarebbe in una barca di immigrati insieme a Maria, gettato a mare in vista della costa di Puglia o Calabria. Forse continua a nascere così, senza sopravvivere, e il venticinque dicembre è solo il più celebre dei suoi compleanni. Dopo di lui il tempo si è ridotto a un frattempo, a una parentesi di veglia tra la sua morte e la sua rivenuta. Dopo di lui nessuno è residente, ma tutti ospiti in attesa di un visto. Siamo noi, pasciuti di Occidente, la colonna di stranieri in fila fuori all’ultimo sportello».


Un anno intenso, questo. In compagnia di buona musica, libri e volti nuovi, sorridenti, solidali, spesso giovani. Io lo festeggio così, questo Natale: ho appena pubblicato il nuovo cd, “Il primo viaggio”, e questo (https://www.youtube.com/watch?v=gNpunF_HeO8) è un brano del cd che mi piace condividere. Per chi sa immaginare futuro diverso

martedì 2 dicembre 2014

Dopo Istanbul, sulla via della pace

Nella moderna Istanbul si respira un anelito di pace. C’è Francesco, il vescovo di Roma, a rappresentare la primazia nella carità della Chiesa di Roma riconosciuta anche dai fratelli ortodossi. C’è Bartolomeo I, il patriarca ecumenico di Costantinopoli, a tendergli la mano. E ci sono i musulmani, incantati da padre Jorge, “come noi”, recitano i giornali.
I gesti, oltre le parole, seppur importanti. La misericordia, il rispetto per ogni uomo e per ogni religione e fede, la certezza che tutto è nelle mani di Dio ma che, oggi, in una Istanbul avvolta da profumi d’incenso, è possibile sperare. I gesti sono importanti nella capitale cosmopolita per definizione, nella Gerusalemme d’Europa e d’Asia che accoglie a bassa voce etnie e credi diversi. I gesti di vescovo Francesco portano con sé la regalia del dono inaspettato, ridando vita alle stupende icone di Bisanzio e allo splendore dell’antica Costantinopoli. I gesti di un uomo innamorato di Dio e dell’umanità tutta.
Quel capo chino di Francesco mentre chiede benedizione al patriarca Bartolomeo I ha fatto il giro del mondo. Ha oltrepassato i cuori delle Chiese sorelle dopo quasi mille anni di distanza e di scomuniche reciproche. Non ci sono più ostacoli irrinunciabili al pieno ritorno della comunione tra cattolici e ortodossi, né sul piano ecclesiale né su quello teologico. Si lavora, da tanto, con apposite commissioni. Si dialoga, insieme. Ma qui c’è un fatto importante a gettare luce di buon futuro: la possibilità che il ministero petrino del vescovo di Roma sia compreso nella sua originale primazia nella carità e nel servizio tra tutte le Chiese. Una primazia che non si vanta di poteri temporali e di vetusti atti di supremazia ecclesiale. Francesco rompe, con la sua visita a Istanbul, il gelo della diffidenza reciproca e anticipa un tempo kairologico che non potrà essere che un futuro di pace e unità.
Per mons. Mansueto Bianchi, assistente generale di Ac e presidente della Commissione episcopale italiana per l’ecumenismo e il dialogo, «quello di Francesco era un viaggio complesso che si esponeva su diversi fronti: il versante politico con una nazione, la Turchia, che è in contatto con le vicende dell’estremismo islamico; il dialogo interreligioso e i rapporti con i musulmani; il dialogo ecumenico con Bartolomeo I al Fanar; e, non ultimo, la vicinanza alla comunità cattolica turca che vive una diversità di riti nel mare islamico. Francesco è riuscito a collocare un messaggio di unità alle Chiese sorelle e al mondo islamico come via naturale della pace. E poi, ancora, è riuscito a smentire l’idea che le religioni siano, di loro natura, mezzo per esprimersi con violenza e intolleranza. Mentre – sono proprio le parole di Francesco – ha detto che usare la violenza in nome di Dio è la cosa più atroce che si possa fare».
Nell’intervista sul volo di ritorno, poi, Francesco ha parlato del dialogo interreligioso, chiedendo ai leader politici, intellettuali e religiosi dell’Islam di condannare il terrorismo fondamentalista. E sull’unità con gli ortodossi ha semplicemente detto, con il suo linguaggio semplice ma diretto, che la via non è quella dell’«uniatismo» della Chiese orientali. «Io sono andato in Turchia come pellegrino, non come turista. E sono venuto precisamente per la festa di oggi, dal patriarca Bartolomeo. Quando sono andato in moschea non potevo dire: adesso sono un turista! Ho visto quella meraviglia, il muftì mi spiegava bene le cose con tanta mitezza, mi citava il Corano là dove si parlava di Maria e di Giovanni Battista. In quel momento ho sentito il bisogno di pregare. Gli ho chiesto: preghiamo un po’? Lui mi ha risposto: “Sì, sì”. Io ho pregato per la Turchia, per la pace, per il muftì, per tutti e per me... Ho detto: Signore, ma finiamola con queste guerre! È stato un momento di preghiera sincera».
E sulle prospettive ecumeniche: «il mese scorso in occasione del Sinodo è venuto come delegato il metropolita Ilarion e lui ha voluto parlarmi non come delegato al Sinodo ma come presidente della commissione del dialogo ortodosso cattolico. Abbiamo parlato un po’. Io credo che con l’ortodossia siamo in cammino, hanno sacramenti e successione apostolica, siamo in cammino. Se dobbiamo aspettare che i teologi si mettono d’accordo, mai arriverà quel giorno! Sono scettico: lavorano bene i teologi, ma Atenagora aveva detto: “Mettiamo i teologi su un’isola a discutere, e noi andiamo avanti!”. L’unità è un cammino che si deve fare e si deve fare insieme, è l’ecumenismo spirituale, pregare insieme, lavorare insieme. Poi c’è l’ecumenismo del sangue: quando questi ammazzano i cristiani, il sangue si mischia. I nostri martiri stanno gridando: siamo uno. Questo è l’ecumenismo del sangue. Andare coraggiosamente su questo cammino, avanti, avanti. È una cosa forse che qualcuno non può capire. Le Chiese orientali cattoliche hanno diritto di esistere, ma l’uniatismo è una parola di un’altra epoca, si deve trovare un’altra strada».
Il bacio di Bartolomeo I sulla fronte di Francesco, e i piedi scalzi del vescovo di Roma nella grande Moschea Blu. Questo conta. Il rispetto, e la condivisione del destino dell’uomo, come via privilegiata per la pace. Francesco e Bartolomeo, al termine della Divina Liturgia della festa di Sant’Andrea, firmando un testo comune che parla delle persecuzioni dei cristiani, prendono coraggio: «Ci appelliamo a tutti coloro che hanno la responsabilità del destino dei popoli – si legge nella dichiarazione – affinché intensifichino il loro impegno per le comunità che soffrono e consentano loro, comprese quelle cristiane, di rimanere nella loro terra natia. Non possiamo rassegnarci a un Medio Oriente senza i cristiani, che lì hanno professato il nome di Gesù per duemila anni».
Dietro i problemi ecclesiologici e teologici che da un millennio ostacolano la piena unità delle Chiese sorelle, la visita di Francesco a Istanbul ci indica che il dialogo ecumenico e interreligioso non è solo una tappa di “buon vicinato”, ma rappresenta la sola e unica via di pace in un Medio Oriente dove chiunque potrà avvicinarsi al suo Dio chiamandolo con il nome indicato dagli antichi padri e profeti. L’abbraccio tra gli apostoli Pietro e Andrea, e tra i loro successori Francesco e Bartolomeo I, scioglie mille anni di incomprensioni.

Ancora una volta, la speranza del mondo è racchiusa nel racconto della scrittura sacra.