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mercoledì 29 gennaio 2014

Il nuovo Piano Marshall di Barack Obama


Deve essere successo qualcosa di eclatante in America se il discorso di Barack Obama sullo stato dell’Unione si è trasformato in una ventata di ottimismo e, nello stesso tempo, in una denuncia nel combattere le disuguaglianze economiche e sociali. I conti, anche negli Usa, cominciano a segnare rosso. È vero, come elenca Obama, che l’America ha la più alta percentuale di neolaureati da più di tre decenni, otto milioni di posti lavoro creati in quattro anni, la disoccupazione più bassa da cinque anni. Rispetto alla stanca e malata Europa, un abisso. Però c’è dell’altro. «I profitti delle imprese non sono mai stati così alti, eppure molti salari sono fermi. La mobilità sociale non è più quella di una volta. Nel mezzo di una crescita troppi lavoratori fanno fatica a tirare avanti».
Già, esattamente come la “sorella” Europa e gran parte del resto del mondo. Occorre, dunque, smuovere le acque stagnanti di una congiuntura economica che si è fidata un po’ troppo del “fai da te” globalizzato e di un capitalismo speculativo e finanziario che ha fatto più danni che altro, oltre che rimpinguarsi le proprie tasche con dollari, euro, yen e sterline. E che non ha capito che la crescita e lo sviluppo del mondo oggi, ancor più di prima, hanno bisogno del sostegno delle avanguardie sociali ed economiche che formano il terzo e quarto mondo, e di una forma di partecipazione “dal basso” che ridisegna un nuovo patto economico tra proprietà e lavoro.
Altrimenti le città scoppieranno e i paesi diverranno sempre più poveri. Come sta accadendo, infatti.
La ricetta di Obama è semplice, per adesso. Si comincia dal salario minimo legale, la grande svolta, alzando da 7,25 a 10,10 dollari l’ora il minimo salariale almeno per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche. Un nuovo “piccolo e grande” Piano Marshall che torna a far girare nel lessico politico mondiale parole ormai dimenticate nel ripostiglio dei sogni perduti, come diseguaglianza, redistribuzione del reddito, patto sociale, crescita e sviluppo per tutti.
Non è una cosa da poco, e soprattutto non è una riforma che tocca la lontana America. In realtà, i suoi effetti, anche nel lungo periodo, toccheranno la nostra Europa, avvitata da un po’ di tempo in una discussione (fino ad adesso sterile) tra coloro che sostengono solo la regola imprescindibile dei bilanci in pareggio e altri invece che invocano una politica macro economica incentrata su ricerca e sviluppo.
Il salario minimo garantito non è solo una risposta, temporale, alla povertà in aumento, anche in America. Può diventare, invece, una proposta economica e politico-culturale fondata sull’idea che le sorti del mondo non possano essere affidate sempre e solo ai soliti noti: banche, multinazionali, lobbies economiche e finanziarie. E non c’è bisogno nemmeno di citare il guru storico che ha incarnato questa idea, quel John Maynard Keynes troppo presto dimenticato dai soloni del capitalismo senza regole, per capire la novità della scelta di Obama.
Da oggi, semplicemente, si ricomincia a parlare di democrazia e uguaglianza economica.
Era ora.

lunedì 27 gennaio 2014

Il gusto della memoria


Durante un mio viaggio a Gerusalemme rimasi colpito dallo Shabbat. Ero ospite in un albergo israeliano e quel senso di vuoto e di silenzio che formano un corpo unico con il giorno del riposo, sacro per gli ebrei, mi fece capire molte cose. Soprattutto la festa e i canti, alla fine dello Shabbat, che ogni famiglia ebrea celebrava intorno a una tavola. Gli ebrei vivono, ancora oggi, una sorta di immedesimazione ancestrale e “quasi” divina con la musica. Si tramandano i canti, gli antichi salmi di lode e i racconti del popolo eletto, quasi meglio dell’educazione scolastica. Prima il canto, poi la parola.
Non è un caso che gli ebrei siano dei musicisti straordinari. La stessa sensazione l‘ho avuta recandomi nella sinagoga adiacente il Muro del Pianto: se un attimo prima i rabbini esaminavano i giovani sulla Torah, subito dopo gli stessi esaminandi venivano portati in “trionfo” sulle spalle degli adulti con canti, musiche e danze popolari. Moni Ovadia racconta che l’unica spiegazione a questo amore per la musica e a un certo virtuosismo insito nell’animus ebraico risiede nel fatto che solo i popoli esiliati e perseguitati, chi ha percepito il dolore sulla propria pelle, possono avere questa forza propulsiva che gli esce fuori dall’anima, così, all’improvviso. Ebrei e rom, in ciò, sono maestri.
Ho sempre pensato che ciò che rende forte un popolo è il gusto per la memoria tramandata di padre in figlio. E se una certa forza interiore circonda da millenni il popolo ebraico non è perché sia il popolo eletto di Dio, bensì perché sa raccontare molto bene la sua memoria. I giovani apprendono dagli adulti cos’è la vita e la morte, sanno rispettare la vecchiaia che pure li circonda, hanno il senso di una terra da difendere e di una religione da proteggere.
Poi cantano, suonano, come pochi sanno fare. Assistere a un concerto di musica klezmer è come proiettarsi all’improvviso dentro Auschwitz o sentirsi nomadi erranti dentro un vagone merci alla ricerca della patria perduta, e nello stesso tempo sorridere e danzare per un amore consacrato nella mani di Dio.
Una volta, anche nella nostra Italia contadina e operaia, si raccontava la memoria dei padri. Ne avevamo gusto. Il tempo liturgico accompagnava il tempo ordinario della vita, la Pasqua e il Natale erano l’occasione buona per ricordare i morti in battaglia e le lotte per i diritti, oltre agli amori trovati e conquistati. L’albero genealogico veniva lustrato a nuova vita. Il vino scendeva a fiumi, e il cibo era l’immagine di un popolo appena uscito dalla grande guerra che sapeva cosa era la dignità. Un cibo sacro, dal sapore di pane e cucine povere. Dato in pasto alla mensa riunita al gran completo, quasi un omaggio voluto alla solidarietà. Si è forti quando si è insieme.
È il gusto della memoria che dà sapore ai cibi e rende dialogico ogni incontro con l’Altro. Senza la memoria non siamo nessuno.

venerdì 17 gennaio 2014

E' il tempo della dolcezza. Intervista con padre Antonio Spadaro


anticipazione di Segno nel mondo n. 2/2014

La sua vita è cambiata da quando, lo scorso settembre, ha pubblicato la prima intervista a papa Francesco sulla rivista che dirige, La Civiltà cattolica (oggi in libreria in una versione ampliata e commentata per Rizzoli col titolo La mia porta è sempre aperta). Insediatosi come direttore dall’ottobre del 2011, Antonio Spadaro, 47 anni, è esperto di CyberTeologia e appassionato di scrittura creativa e comunicazioni sociali. Con lui, la quiete di Villa Malta, la bellissima sede della rivista dei gesuiti immersa nel cuore di Roma, è diventata una sorta di avamposto della “buona battaglia”: convegni, seminari, presentazioni di libri, corsi di formazione alla politica per giovani. I gesuiti de La Civiltà cattolica, oltre lo scrittoio, si danno da fare.
Con Segno accetta di parlare di Francesco e della Chiesa che verrà.

Padre Spadaro, nel colloquio che il Santo Padre ha concesso all’Unione superiori generali degli Istituti religiosi maschili lo scorso fine novembre e che lei ha raccontato nel primo quaderno di gennaio de La Civiltà cattolica, papa Francesco rivolge un invito ai religiosi: «Svegliate il mondo! La Chiesa deve essere attrattiva». Cosa intendeva dire?
La Chiesa, per papa Francesco, non è semplicemente chiamata a fare proseliti, a conquistare le persone con una sorta di seduzione, ma deve essere attrattiva con la sua testimonianza. La Chiesa è attrattiva quando vive il vangelo, quando il popolo di Dio e i cristiani propongono un modello di vita che risulta essere bello, buono e vero. Nel momento in cui le persone vivono autenticamente una vita bella e buona allora diventano per forza attrattive, perché il vangelo si manifesta non in parole ma in opere. Questa affermazione di papa Francesco chiarisce qual è la posizione della Chiesa che è, appunto, missionaria. Una delle cose che più rappresenta questo pontificato è l’approccio radicale missionario alla vita cristiana: la Chiesa è chiamata ad annunciare il vangelo a chiunque.

«La profezia del Regno non è negoziabile», continua Francesco…
Il ruolo profetico è fondamentale per il religioso. Francesco, parlando ai religiosi, dice che non è la radicalità evangelica a essere la specificità propria del religioso, ma è il seguire il Signore in una forma particolare, che sono i voti, e che manifesta in maniera chiara la profezia del Regno. I voti di povertà, castità e obbedienza, sono dei valori che tutti cristiani sono chiamati a vivere nella loro condizione umana ma il religioso, in modo particolare, manifesta la profezia del Regno che verrà vivendo una vita profondamente svuotata di se stesso per conformarla a Cristo. Quello che radicalmente importa è essere annunciatori del Regno, profeti del regno di Dio.

Altro consiglio: il vangelo va annunciato con dolcezza e non con il bastone.
È un’espressione che Francesco ha usato con noi gesuiti ma che in realtà fa parte del suo approccio generale alla testimonianza: il vangelo è un messaggio di amore e dolcezza. La parola “dolcezza” è un termine molto caro a Francesco: l’ha usata varie volte, per esempio quando ha definito Pietro Favre, nella mia intervista pubblicata lo scorso settembre, “dolce dolce dolce”. Il concetto di “dolcezza” andrebbe indagato meglio nella comprensione di Bergoglio: la dolcezza non è un termine zuccheroso.
Ad Assisi Francesco ha infatti ricordato che a volte i cristiani sembrano gente di pasticceria. La
dolcezza di cui parla Francesco non è quella del pasticcino, ma è la dolcezza solida del vangelo che accoglie chiunque con un abbraccio caldo e con uno spirito aperto. Un atteggiamento solido, forte, di apertura di misericordia, che si radica poi nella solidità di Dio.

Alcune sfide del pontificato di Bergoglio destano una forte attenzione nell’opinione pubblica. Cominciamo dalla prima: la riforma della curia.
La riforma della curia è importante ma non è la cosa che gli sta più a cuore. La riforma delle strutture per lui è qualcosa che matura lentamente e spontaneamente dentro un processo di conversione. Le riforme strutturali richiedono tempo e prudenza, perché sono frutto di uno stile di vita che deve crescere e maturare. Il papa non ha un progetto teorico da mettere in pratica a tappe definite e precise. Il papa è aperto all’esperienza, si muove, poi riflette, prega e si confronta. E sulla base di questa riflessione continua a procedere. La riforma della curia è una riforma di tipo spirituale. In fondo, come disse Benedetto XVI, le strutture della Chiesa come la curia sono un strumento a servizio di un corpo vivo. Ecco perché la riforma della curia è una riforma continua nel senso che le cose da cambiare non saranno decise per il puro gusto di cambiare, ma per adeguare meglio le strutture a un corpo vivente che è la Chiesa.

Un’altra sfida importante: come annunciare il vangelo.
La sfida di annunciare il vangelo è la sfida fondamentale di Bergoglio. Per lui la Chiesa è missionaria. Questo annuncio del vangelo non è un messaggio astratto, fatto solo di principi teorici, ma si incarna nella vita delle persone. Ha a che fare con l’inserimento nella realtà del mondo. Papa Francesco, come sappiamo, è stato a lungo pastore nella sua diocesi, ha vissuto continuamente con la sua gente e da lì ha imparato che il messaggio del vangelo si comunica quando il missionario è inserito e vive la realtà delle persone alle quali annuncia il vangelo stesso. L’annuncio si inserisce in un contesto reale, territoriale. Questo contesto non è secondario: vanno accolte le sfide che esso pone. È una questione delicata: Benedetto XVI, durante il discorso in cui annunciava la sua rinuncia al pontificato, parlò di come oggi alla fede si pongono sfide accelerate e forti. L’annuncio del vangelo non chiude gli occhi davanti a queste sfide ma li apre sull’umanità concreta che sta vivendo.

Aprire gli occhi sull’umanità in cammino. Sembra proprio questo il senso del questionario inviato ai fedeli per preparare al meglio il prossimo Sinodo straordinario delle famiglie del 2014.
Il dialogo per papa Francesco è una cosa estremamente pratica. Non è solamente un confronto di idee astratte. Per lui conta molto il fare: si dialoga facendo le cose insieme. È importante, quindi, ribadire i valori fondamentali, entrando in un dibattito sociale costruttivo con le forze attive. Il questionario è interessante perché lo stile di papa Francesco apre le porte. Anche nell’esortazione Evangelii Gaudium ci sono questioni forti, ma non ci sono solamente risposte definite. Francesco non dà soluzioni immediate, ma pone sfide aperte, le apre al dialogo. Ciò è funzionale a un discernimento da parte del popolo di Dio. Lo scopo è quello di aprire discorsi, aprire gli occhi davanti alle sfide senza irrigidimenti. Penso che il vangelo non si annunci solo ribadendo dei principi, ma accostando le persone nelle loro esperienze e nelle loro domande sulla vita. È insomma ciò che è accaduto ai discepoli di Emmaus. Molti rimangono turbati. Il fatto che il papa usi uno stile dialogico e metta in discussione gli argomenti scandalizza qualcuno che ha bisogno di certezze chiare e definitive. Che però interessano poco l’umanità, che invece è molto ricca e complessa. Francesco non chiude porte ma apre finestre.

Quanto le Chiese sono pronte a raccogliere le sfide del nuovo pontificato?
Le sfide di Francesco sono le sfide del vangelo, non le sue personali. Quindi la domanda potrebbe essere capovolta: quanto la Chiesa è pronta ad accogliere il vangelo? È assolutamente pronta e mai pronta del tutto, perché in fondo essere pronti è frutto di una grazia, un dono del Signore. Certamente Francesco è un uomo di fede che vive immerso in Dio e sa che la Chiesa non è sua ma di Dio. Il suo compito è di animarla affinché cerchi il Signore e si conformi al Signore. È vero poi che si
confrontano alcune immagini di Chiesa. Ci sono persone che vedono la Chiesa come un faro nella notte fermo in una posizione stabile che illumina ciò che gli sta accanto, mentre altre preferiscono l’immagine della fiaccola che si muove in direzione degli uomini. Quindi, raccogliendo anche tutti i loro percorsi di vita, a volte accidentati, per portare la luce del vangelo dove gli uomini sono. Credo che la sfida di oggi sia questa: di non rinunciare mai alla sua funzione di faro e nello stesso tempo di declinare la sua presenza in movimento con l’umanità.

Cosa ha pensato quando è stato eletto Francesco?
Sono rimasto abbastanza sconvolto. L’idea di un papa gesuita per me era inimmaginabile. Quando ho sentito il suo nome sono rimasto sinceramente sconvolto e ho cercato di capire cosa questo significasse per la Chiesa, per il mondo e per noi gesuiti.

Cosa si aspetta da Francesco?
Sono aperto alle sorprese. Non mi aspetto nulla: vivrò ciò che il Signore vorrà far vivere alla sua Chiesa. È un tempo particolare per la Chiesa. Farsi venire delle aspettative significa forse rischiare di non sintonizzare l’orecchio con quello che sta accadendo. Ognuno di noi ha delle aspettative, però se sono troppe si rischia di proiettare l’immagine della Chiesa e della realtà che noi vogliamo sulla realtà e sulla Chiesa stessa. E questo non va bene.
Preferisco vivere il presente cercando di discernere la volontà di Dio nel momento presente.

Chi è Francesco?
È un peccatore al quale il Signore ha guardato. È una definizione che proprio lui ha dato nella mia intervista. È una persona profondamente immersa in Dio, che vive la sua spiritualità in maniera costante e ordinaria, perfettamente consapevole dei suoi limiti e della sua debolezza ma nello stesso tempo molto grato al Signore per ciò che gli dà da vivere. È anche una persona che vive la sua vita stessa come un mistero: a volte accoglie con sorpresa ciò che gli è dato da vivere, essendo consapevole dell’autorità che gli è stata e declinandola non in termini di distanza ma in termini di vicinanza.
Francesco, dall’alto del suo ministero petrino, avvicina la gente allo sguardo misericordioso e dolce di Dio. 

martedì 14 gennaio 2014

Ascoltando Fabrizio De Andrè con don Gallo


Quel sigaro toscano che fumava dalle cinque del pomeriggio fino a notte fonda, se lo toglieva dalla bocca solo quando parlava di Fabrizio De Andrè. L’amico delle lotte per gli esclusi, l’amico della Genova del porto vecchio, il compagno di tante battaglie. L’ho visto poche volte, il Gallo, commuoversi davanti alla vita randagia e umiliata che gli si affacciava davanti ogni giorno, una durezza che lui metteva davanti a tutto e a se stesso per salvaguardare l’incontro con l’Altro. E quando lo ha fatto, lo ha fatto per lui, Faber.
Ho parlato a lungo con Andrea, per due anni almeno, dentro quel suo studio pregno di tabacco  e colmo di libri. Ci incontravamo di notte, fino all’inizio di nuova alba. Mi aveva preso anche a ben volere: mi apostrofava come il suo “vaticanista di riferimento”. Ma quando i discorsi andavano “oltre”, e quell’oltre era l’ascolto di Creuza de mä e di altre ballate del suo amico fragile Faber, lui, il Gallo, si commuoveva davvero.
Una voce increspata. Si fermava, toglieva il sigaro dalla bocca, batteva i pugni sul tavolo e mi diceva: «scusa, sai, non ce la faccio proprio a continuare su Fabrizio. Mi prende un nodo alla gola». Sapevo però cosa fare per riprendere la conversazione: bastava ricordagli qualche aneddoto da “vaticano e dintorni” che subito gli riprendeva il sorriso, regalandomi delle barzellette inaspettate da scompisciarsi dalle risa sul personaggio leader del suo buonumore, il fu cardinal Giuseppe Siri.
Oggi che in libreria esce il frutto di queste lunghe conversazioni e tanta musica ascoltata insieme, ne gusto il nettare proibito. Mi sento un fortunato: da giornalista, da musicista, e da amante della “buona battaglia” ho potuto scrivere un libro, insieme a don Gallo, in cui la musica è l’arte che cambia la vita degli uomini e restituisce dignità a un’umanità ferita e ormai disillusa.
Ecco, oggi mi viene da dire che forse bisognerebbe ricominciare da qui: da una buona musica e da parole che sappiano scaldare i cuori e le passioni. Per un paese che ha perso ogni riferimento morale, oggi io mi ascolto di nuovo Fabrizio De Andrè. Poeta degli esclusi e perso in un Dio dell’amore e non dei precetti. In cerca di un incontro con l’uomo, chiunque esso sia, e non di una legge.
Ciao don Gallo, ciao Fabrizio. Se oggi siamo migliori, lo dobbiamo anche a voi.