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mercoledì 23 aprile 2014

Ecco perché pregherò per papa san Giovanni XXIII


Tempo fa, quando la Chiesa navigava in brutte acque, mi capitava spesso di lagnarmi al riparo di un monastero amico. Possibile continuare così, mi chiedevo? A dissiparmi i dubbi era sempre, ed è tuttora, Guido Dotti della Comunità di Bose, un monaco dalla fede granitica e dal sorriso gioviale, il quale mi ha sempre risposto in questo modo: «Vedi, Gianni, la differente età che abbiamo mi permette di dirti che io credo perché ho conosciuto in vita Giovanni XXIII e poi ho visto iniziare il Concilio Vaticano II».
Ha ragione l’amico Guido. Troppo piccolo ho appena annusato il vento del cambiamento del Concilio, e non mi ricordo spiegazioni pastorali da parte dei miei genitori indaffarati più a tirar su famiglia che non a disquisire sulla Chiesa di Pietro. Mentre, questo sì, il sorriso e il volto del “papa buono” erano di casa, una presenza assidua, nelle foto, nelle medaglie, persino la mia catenina di battesimo, che ancora indosso, porta la figura di papa Giovanni che abbraccia un bambino.
Confesso che il non aver conosciuto papa Giovanni mi ha procurato sempre una sorta di angoscia, oppure invidia nei confronti di chi ha avuto questa grazia. Cresciuto in seguito a pane e Rahner, ho avuto il privilegio di seguire da vicino il grande pontificato di Giovanni Paolo II. Ventisette anni non sono pochi. Ho visto le conversioni dovute al papa polacco, ho annotato le vocazioni sacerdotali arricchite dal suo esempio, la spinta rivoluzionaria rispetto a un’idea di economia e sviluppo globale, ne ho scritto anche sulle sue non felici (a mio parere) scelte ecclesiali, rispetto a un governo della curia lasciato deperire anno dopo anno e a molte nomine vescovili e cardinalizie di stampo conservatore (penso, a  riguardo, che su questo tema la critica storica e l’immediatezza giornalistica siano d’accordo).
Ho visto il cuore dei fedeli rotto durante gli ultimi giorni della sua malattia. E piazza San Pietro immersa in un dolore e un misto di preghiera come non mai.
Però io mi inginocchierò, domenica 27 aprile, soprattutto per papa Giovanni, il mio santo della porta accanto. Non per una questione di simpatia. Ma perché con papa Giovanni ho imparato a desiderare una speranza e un futuro, quel “qualcosa” di misterioso che superando latitudini e longitudini cambia il mondo. Una mano tesa che la Chiesa offre all’uomo, mendicante d’amore. Mentre con Giovanni Paolo II regnante, ho avuto sempre il sentore che la Chiesa si identificasse con il mondo, o perlomeno che la Chiesa volesse impadronirsi del mondo, e non cambiarlo.
Il sorriso, da una parte. L’audacia, dall’altra. Il dialogo. E la battaglia.
Così, quando alcuni mesi fa, papa Francesco ha permesso la canonizzazione di entrambi nella stessa data, ho capito che la Chiesa e il suo corpo mistico va molto più in là di una semplice, benché importante, festa popolare in onore di un “santo subito”. Quasi volesse dire: “santo subito”, ma “santi insieme”.
Una furbata gesuitica? Forse. La sapienza millenaria della Chiesa? Direi di sì.
Ecco perché il 27 aprile sarò lì, in piazza San Pietro, a godermi lo spettacolo dello Spirito che soffia dove vuole e di una Chiesa che è viva, autentica sposa del bene e della felicità.
Tanto, prima o poi, arriverà quel giorno in cui potremo dire anche noi: «vedi, caro amico, io credo perché ho conosciuto papa Francesco. E ho visto iniziare la riforma della Chiesa».
Una scommessa che vale questo bel futuro che abbiamo davanti.

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