La piazza, e il patibolo. La piazza, e la croce. La
piazza, e l’intronizzazione. Il potere, qualsiasi potere, politico,
rivoluzionario ed ecclesiastico, ha impersonificato nel corso dei secoli
l’attitudine a dar voce al popolo, spesso quando questo conviene. Quel “santo
subito”, che molti urlavano il giorno dei funerali di Giovanni Paolo II, ha
varcato, attraverso le tv di tutto il mondo, il muro delle coscienze di molti
cattolici. Santo subito, a furor di popolo, certo. Ma anche “santo subito” per
volere dei supporters di papa Wojtyla, tra i quali il clero polacco, e
cardinali e vescovi che, con l’ascesa al potere dell’arcivescovo di Cracovia,
avevano visto, finalmente, rafforzare la loro idea di Chiesa e allontanare dai
loro occhi parecchie scintille di profezia incarnate dal Concilio Vaticano II.
La simbiosi tra popolo e potere è stata, in questo
caso, esaltata al massimo. La straordinaria brevità del percorso agli onori
degli altari, beatificazione e canonizzazione, a soli 9 anni dalla morte di
Wojtyla, dimostrano che l’iter burocratico ha avuto accelerazioni forti, dentro
i palazzi che contano. Siamo stati abituati dalla Chiesa a tempi assolutamente
più lunghi nella proclamazione di santi, specie se si tratta di papi.
Bergoglio è venuto a scompigliare le acque. Non è
un mistero che il carattere e la teologia del papa latinoamericano sono lontani
mille miglia dalla biografia spirituale di Giovanni Paolo II: diversi i
sorrisi, le parole, e diverso soprattutto il modo di vedere le cose all’interno
della Chiesa cattolica. Giovanni Paolo II si è fidato di collaboratori, in
curia, che ora Francesco non vuole più vedere. Del resto, la canonizzazione di
Wojtyla è “passata” anche a opera del suo predecessore, Benedetto XVI, e certo
non poteva bloccarla. Però una cosa poteva fare, e l’ha fatta. E così, quel
nome messo proprio lì da Francesco accanto al papa polacco, il Giovanni XXIII,
padre del Concilio Vaticano II, risuona non tanto come un invito a rileggere la
storia ecclesiale passata (alcuni caratteri di santità di Giovanni Paolo II
sono davanti agli occhi di tutti), quanto un invito a immaginare un futuro dove
parole come misericordia, tenerezza, ascolto, accoglienza, dialogo tornano a
essere pietra angolare di un nuovo lessico dell’evangelizzazione. Un vangelo,
sobrio, leggero, carico di dolcezza e perdono.
Papa Francesco ha dispensato dal secondo miracolo
Giovanni XXIII perché ha voluto il Concilio Vaticano II. Lo Spirito Santo
dunque bussa anche altre porte? Una canonizzazione pro gratia, papa santo senza bisogno di certificare il
secondo miracolo? Forse. «Non esattamente una canonizzazione equipollente – mi
racconta Marco Roncalli, pronipote di Giovanni XXIII, giornalista e
riconosciuto storico dell’illustre zio -, se il cardinale Angelo Amato,
prefetto della Congregazione delle cause dei Santi, ha precisato che “non sono
stati fatti sconti, né tantomeno papa Francesco ha esentato dal miracolo”. Il
pontefice “ha solo ridotto i tempi per la grande opportunità per la Chiesa
intera di celebrare nel 2014 con Giovanni XXIII, l’iniziatore del Concilio
Vaticano II, e con Giovanni Paolo II, il realizzatore dei fermenti pastorali,
spirituali e dottrinali dei documenti conciliari”. Del resto, e sono sempre
parole di Amato, la Positio roncalliana, anche dopo la beatificazione, si è via via arricchita di
segnalazioni di grande interesse, accompagnate da documentazione medica, “parte
integrante del processo”, tali da non far ritenere formalmente questa una
“canonizzazione equipollente” In ogni caso, dietro la decisione, questa volta,
c’è papa Francesco. Il pontefice, impressionato dalla cura che Giovanni XXIII
“sempre pose nel custodire la propria anima, in mezzo alle più svariate
occupazioni in campo ecclesiale e politico”, nonché il pontefice che nei fatti
ha sin qui palesato la più creativa “recezione” del Concilio e pro gratia ha reso inutili nuove attese. La conferma di ciò sono
le tante persone che hanno creduto in una “bella santità” vissuta quotidianamente
nella normalità. Un uomo anziano che aveva la stessa purezza del giorno in cui
ricevette il battesimo. Per noi un modo di credere ancora nella possibilità di
vivere le virtù cristiane, che non sono solo un fatto privato, ma che incidono
nella storia degli uomini».
Ecco perché la decisione bergogliana
di accorpare i due papi santi, è politicamente corretta, mediaticamente
straripante, gesuiticamente furba, ecclesialmente dirompente. E pastoralmente
geniale.
Nessuno mette in dubbio i tanti
miracoli fatti da Giovanni Paolo II: le conversioni pastorali, la maturazione
della propria fede, e anche le guarigioni corporali. Ma, oggi, la Chiesa
festeggia anche quella parte del mondo cattolico che, negli ultimi trenta anni,
è stato messo ai margini. Quella Chiesa della profezia e della speranza che aveva
scelto il Concilio Vaticano II come stella polare del proprio cammino, e aveva
in don Tonino Bello, David Maria Turoldo, Carlo Carretto, Carlo Maria Martini, Vittorio Bachelet, Benedetto
Calati, Ernesto Balducci, don Luigi Di Liegro, tanto per citarne qualcuno,
l’esempio migliore per una vangelo della prossimità e dell’alterità.
Già in questa scelta, papa Francesco
ha scelto di essere davvero il papa. Il padre di tutti.
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