Tempo
fa, quando la Chiesa navigava in brutte acque, mi capitava spesso di lagnarmi
al riparo di un monastero amico. Possibile continuare così, mi chiedevo? A
dissiparmi i dubbi era sempre, ed è tuttora, Guido Dotti della Comunità di
Bose, un monaco dalla fede granitica e dal sorriso gioviale, il quale mi ha
sempre risposto in questo modo: «Vedi, Gianni, la differente età che abbiamo mi
permette di dirti che io credo perché ho conosciuto in vita Giovanni XXIII e
poi ho visto iniziare il Concilio Vaticano II».
Ha
ragione l’amico Guido. Troppo piccolo ho appena annusato il vento del
cambiamento del Concilio, e non mi ricordo spiegazioni pastorali da parte dei
miei genitori indaffarati più a tirar su famiglia che non a disquisire sulla
Chiesa di Pietro. Mentre, questo sì, il sorriso e il volto del “papa buono” erano
di casa, una presenza assidua, nelle foto, nelle medaglie, persino la mia catenina
di battesimo, che ancora indosso, porta la figura di papa Giovanni che
abbraccia un bambino.
Confesso
che il non aver conosciuto papa Giovanni mi ha procurato sempre una sorta di
angoscia, oppure invidia nei confronti di chi ha avuto questa grazia. Cresciuto
in seguito a pane e Rahner, ho avuto il privilegio di seguire da vicino il grande
pontificato di Giovanni Paolo II. Ventisette anni non sono pochi. Ho visto le
conversioni dovute al papa polacco, ho annotato le vocazioni sacerdotali
arricchite dal suo esempio, la spinta rivoluzionaria rispetto a un’idea di
economia e sviluppo globale, ne ho scritto anche sulle sue non felici (a mio
parere) scelte ecclesiali, rispetto a un governo della curia lasciato deperire
anno dopo anno e a molte nomine vescovili e cardinalizie di stampo conservatore
(penso, a riguardo, che su questo tema
la critica storica e l’immediatezza giornalistica siano d’accordo).
Ho
visto il cuore dei fedeli rotto durante gli ultimi giorni della sua malattia. E
piazza San Pietro immersa in un dolore e un misto di preghiera come non mai.
Però
io mi inginocchierò, domenica 27 aprile, soprattutto per papa Giovanni, il mio
santo della porta accanto. Non per una questione di simpatia. Ma perché con
papa Giovanni ho imparato a desiderare una speranza e un futuro, quel
“qualcosa” di misterioso che superando latitudini e longitudini cambia il mondo. Una mano tesa che la
Chiesa offre all’uomo, mendicante d’amore. Mentre con Giovanni Paolo II
regnante, ho avuto sempre il sentore che la Chiesa si identificasse con il mondo, o perlomeno che la Chiesa volesse
impadronirsi del mondo, e non cambiarlo.
Il
sorriso, da una parte. L’audacia, dall’altra. Il dialogo. E la battaglia.
Così,
quando alcuni mesi fa, papa Francesco ha permesso la canonizzazione di entrambi
nella stessa data, ho capito che la Chiesa e il suo corpo mistico va molto più
in là di una semplice, benché importante, festa popolare in onore di un “santo
subito”. Quasi volesse dire: “santo subito”, ma “santi insieme”.
Una
furbata gesuitica? Forse. La sapienza millenaria della Chiesa? Direi di sì.
Ecco
perché il 27 aprile sarò lì, in piazza San Pietro, a godermi lo spettacolo
dello Spirito che soffia dove vuole e di una Chiesa che è viva, autentica sposa
del bene e della felicità.
Tanto,
prima o poi, arriverà quel giorno in cui potremo dire anche noi: «vedi, caro
amico, io credo perché ho conosciuto papa Francesco. E ho visto iniziare la
riforma della Chiesa».
Una
scommessa che vale questo bel futuro che abbiamo davanti.
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