Non
mi ha stupito l’invito rivolto da papa Francesco, alcuni giorni fa, ai membri degli Istituti secolari, nel suo
stile diretto, a braccio. Durante l’udienza, qualcuno ha chiesto quando procederanno le cause canoniche per
Giorgio La Pira e Armida Barelli e il papa ha replicato, alludendo a Karol
Wojtyla: «Andate avanti, eh, il popolo qui, nel 2005 ha gridato “santo subito”
e poco dopo è stato fatto santo, gridate voi per questi due, grazie, è un
piacere».
Da tempo, infatti, scrivo che l’abbinamento
Roncalli-Wojtyla sugli altari, è stato un passo “voluto” e “dovuto” da papa
Francesco. Nessuno mette in dubbio i tanti miracoli
fatti da Giovanni Paolo II: le conversioni pastorali, i cammini di fede, e
anche le guarigioni corporali. Solo che Bergoglio ha voluto far festa anche con
quella Chiesa che, negli ultimi trenta anni, è stata messa ai margini avendo pensato
al Concilio Vaticano II come una grande casa dove costruire percorsi per una
Chiesa libera, audace, coraggiosa, in dialogo con il mondo, accanto ai poveri,
e povera nei suoi templi e nei suoi agi dorati conquistati in anni di
ammiccamenti con il potere. Quella Chiesa della profezia e della speranza che
aveva scelto il Concilio Vaticano II come stella polare del proprio cammino, e
aveva avuto in don Tonino Bello, David Maria Turoldo, Carlo Carretto, Carlo
Maria Martini, Vittorio Bachelet, Benedetto Calati, Ernesto Balducci, don Luigi
Di Liegro, tanto per citarne qualcuno, l’esempio migliore per un vangelo della
prossimità e dell’alterità.
La notizia della prossima beatificazione di Paolo VI, il papa
“intellettuale”, non fa altro che rimescolare le carte: non c’è solo Wojtyla,
come forse qualche principe della Chiesa voleva far credere. Personalmente non
mi piace questa sbornia dei tre papi santi. Non credo che il mondo, e la
Chiesa, abbiano bisogno oggi di una papolatria indotta. Ma mi rendo conto che
papa Francesco abbia scelto di essere davvero il papa, il padre di tutti, indicando
un cammino di santità che attraversa storie di vita diverse e, qualche volta,
contrastanti.
“Santo subito” non può essere l’unica acclamazione pro-canonizzazione,
l’unica voce di popolo intonata al canto dei regnanti di turno e alle
mediazioni ecclesiali. Perché invece, spesso, quasi sempre, quel “santo subito”
è il grido sommerso e nascosto di una fede che sa riconoscere i suoi santi in
ogni angolo di terra e paradiso. Santi spesso umili, poveri, uomini e donne
laici, religiosi, vescovi di piccole città, martiri della fede sparsi in ogni
angolo di mondo, santi del popolo di Dio che con la loro vita ci fanno capire
quanto il vangelo sia più vicino all’uomo di quello che crediamo. Santi che già
compiono miracoli, senza aver avuto ancora nessuno avvallo pontificio, e che
continueranno a farli, alla faccia delle commissioni e dei tribunali diocesani.
Santi che sono, già oggi, i nostri angeli protettori. Le nostre ali di riserva
di un vangelo della gioia e della speranza.
Se penso alle conversioni che i libri di Carlo Carretto ancora attuano
nel cuore delle persone, se guardo all’albero nel cimitero di Alessano dove
sono appesi migliaia di bigliettini con suppliche, richieste di auto,
intercessioni a don Tonino Bello, se considero il martirio di mons. Arnulfo
Romero mentre dona se stesso nell’ultima messa, allora ogni “santo subito”
impallidisce di fronte alla beatitudine di un popolo di Dio che sa riconoscere
chi si incammina “in perfetta letizia” sui sentieri del vangelo.
Sì, abbiamo bisogno di santi, angeli protettori. Non c’è bisogno di
gridarlo, essi sono già lì che ci guardano e ci accompagnano per mano.
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