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mercoledì 17 aprile 2013

Don Tonino Bello, vent'anni dopo


Il 20 di aprile ricordiamo i vent’anni dalla morte di don Tonino Bello. Più ci penso, più sono convinto che sia mancato come uomo e come pastore sia alla Chiesa che al Paese. La sua figura umana, la sua carica di profezia evangelica, la sua capacità dolce di abbracciare l’Altro, chiunque esso sia.
Ho avuto la fortuna di passare un po’ di tempo con lui recentemente, frugando nella sua vita e opere, per raccontarne la storia in una biografia “autorizzata” dalla diocesi di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi (La messa non è finita. Il vangelo scomodo di don Tonino Bello, Rizzoli).
Ma non nego che la professione ha lasciato il posto, man mano che conoscevo gli aspetti più belli e significati del vescovo degli ultimi, a una sorta di innamoramento per un Vangelo annunciato con il sorriso sulle labbra e la tenerezza nel cuore.
Sì, ci è mancato molto don Tonino in questi anni. E anche i dibattiti intorno alla ricezione del Concilio Vaticano II con lui presente, avrebbero avuto più senso. Forse lo stesso Concilio Vaticano II sarebbe uscito dal giro dei convegni per gli addetti ai lavori per entrare definitivamente nella storia delle comunità ecclesiali.
Ma c’è un altro sentimento che mi pare di cogliere pensando a don Tonino. Alla sua mancanza fa oggi da contrappeso la sua vicinanza. Papa Francesco, con i suoi primi gesti semplici e sobri, mi ha reso l’immagine di un don Tonino molto più vicina a noi. Come se lui fosse presente, oggi.
Il potere dei segni, per usare una parola tanto cara a don Tonino, con Francesco diventa teologia incarnata alle pagine più belle del Vangelo. E quella Chiesa del grembiule, la Chiesa che serve, che testimonia accanto ai poveri, e che ancora oggi rimane uno dei testi più belli lasciati in eredità da don Tonino, trova residenza e ospitalità nel cuore degli uomini.
Pietro, Francesco, lavando i piedi nel giovedì santo a una ragazza detenuta musulmana, simbolo dell’alterità perché donna, peccatrice e di una religione diversa, si pone al servizio dell’umanità intera. Un Vangelo che va oltre i Tempi e le mura di casa nostra. Francesco che ha la croce pettorale di ferro, che usa poco la stola durante le celebrazioni, persino la mitra, mi ricorda don Tonino che scelse come sua croce pettorale una in legno, così come il pastorale. Mentre l’anello episcopale fu quello della madre sposata. E il motto del suo episcopato un programma fin troppo chiaro: Ascoltino gli umili e si rallegrino.
Sono passati tanti anni, ma di don Tonino non abbiamo perso né la memoria, né il suo coraggio e la sua profezia. C’è un processo di beatificazione in corso, ma ci sono soprattutto le tante testimonianze di chi lo ha conosciuto, e di chi si è lasciato convincere dalla sua profonda umanità. Con la povera gente, sempre, con gli sfrattati, i disoccupati, gli alcolizzati, i malati, i carcerati, gli immigrati. Un uomo e un vescovo che ha saputo fermare le bombe a Sarajevo, nel dicembre del 1992, con altri cinquecento “pazzi” e ostinati della pace.
Nell’Italia di oggi, e nella Chiesa di oggi, don Tonino avrebbe avuto molto da dire. Avrebbe accarezzato, accompagnato, aiutato. Qualche volta alzato la voce per farsi sentire.
Caro don Tonino, ci manchi molto. Ci manca la tua profezia, il tuo modo di spiegare e raccontare le parole sacre, e il fatto che non hai mai avuto paura del dialogo con l’Altro, il diverso da noi.
Ti sentiamo vicino.
Perché mai come oggi abbiamo bisogno di santi ribelli che aprano gli occhi alla nostra ipocrisia. Facendo nascere in noi la sete di una giustizia più vera.

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