Il 20 di aprile ricordiamo
i vent’anni dalla morte di don Tonino Bello. Più ci penso, più sono convinto
che sia mancato come uomo e come pastore sia alla Chiesa che al Paese. La sua
figura umana, la sua carica di profezia evangelica, la sua capacità dolce di
abbracciare l’Altro, chiunque esso sia.
Ho avuto la fortuna di
passare un po’ di tempo con lui recentemente, frugando nella sua vita e opere,
per raccontarne la storia in una biografia “autorizzata” dalla diocesi di
Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi (La
messa non è finita. Il vangelo scomodo di don Tonino Bello, Rizzoli).
Ma non nego che la
professione ha lasciato il posto, man mano che conoscevo gli aspetti più belli
e significati del vescovo degli ultimi, a una sorta di innamoramento per un Vangelo
annunciato con il sorriso sulle labbra e la tenerezza nel cuore.
Sì, ci è mancato molto don
Tonino in questi anni. E anche i dibattiti intorno alla ricezione del Concilio
Vaticano II con lui presente, avrebbero avuto più senso. Forse lo stesso
Concilio Vaticano II sarebbe uscito dal giro dei convegni per gli addetti ai
lavori per entrare definitivamente nella storia delle comunità ecclesiali.
Ma c’è un altro sentimento
che mi pare di cogliere pensando a don Tonino. Alla sua mancanza fa oggi da contrappeso la sua vicinanza. Papa Francesco, con i suoi primi gesti semplici e sobri,
mi ha reso l’immagine di un don Tonino molto più vicina a noi. Come se lui
fosse presente, oggi.
Il potere dei segni, per
usare una parola tanto cara a don Tonino, con Francesco diventa teologia
incarnata alle pagine più belle del Vangelo. E quella Chiesa del grembiule, la Chiesa che serve, che testimonia accanto
ai poveri, e che ancora oggi rimane uno dei testi più belli lasciati in eredità
da don Tonino, trova residenza e ospitalità nel cuore degli uomini.
Pietro, Francesco, lavando
i piedi nel giovedì santo a una ragazza detenuta musulmana, simbolo
dell’alterità perché donna, peccatrice e di una religione diversa, si pone al
servizio dell’umanità intera. Un Vangelo che va oltre i Tempi e le mura di casa
nostra. Francesco che ha la croce pettorale di ferro, che usa poco la stola
durante le celebrazioni, persino la mitra, mi ricorda don Tonino che scelse
come sua croce pettorale una in legno, così come il pastorale. Mentre l’anello
episcopale fu quello della madre sposata. E il motto del suo episcopato un
programma fin troppo chiaro: Ascoltino
gli umili e si rallegrino.
Sono passati tanti anni, ma
di don Tonino non abbiamo perso né la memoria, né il suo coraggio e la sua
profezia. C’è un processo di beatificazione in corso, ma ci sono soprattutto le
tante testimonianze di chi lo ha conosciuto, e di chi si è lasciato convincere
dalla sua profonda umanità. Con la povera gente, sempre, con gli sfrattati, i
disoccupati, gli alcolizzati, i malati, i carcerati, gli immigrati. Un uomo e
un vescovo che ha saputo fermare le bombe a Sarajevo, nel dicembre del 1992,
con altri cinquecento “pazzi” e ostinati della pace.
Nell’Italia di oggi, e
nella Chiesa di oggi, don Tonino avrebbe avuto molto da dire. Avrebbe
accarezzato, accompagnato, aiutato. Qualche volta alzato la voce per farsi
sentire.
Caro don Tonino, ci manchi
molto. Ci manca la tua profezia, il tuo modo di spiegare e raccontare le parole
sacre, e il fatto che non hai mai avuto paura del dialogo con l’Altro, il
diverso da noi.
Ti sentiamo vicino.
Perché mai come oggi
abbiamo bisogno di santi ribelli che aprano gli occhi alla nostra ipocrisia. Facendo
nascere in noi la sete di una giustizia più vera.
Nessun commento:
Posta un commento