La nostra generazione ha conosciuto solo un
termine economico: inflazione. Era il dolce gabello della lira italica,
aggiustata e costruita per i salari in aumento, i consumi in eccesso, i tassi
bancari con segno “più”. Una moneta, la lira, in tempi di magra,
persino svalutata. L’inflazione che sale è segno che l’economia si
“muove”, così almeno
scrivono i manuali. Certo, bisognerebbe vedere in quale direzione si muove. Ma,
oggi, questo problema è
superato.
Siamo in deflazione, come nel lontano 1959. Tutto fermo. I consumi non
crescono, figuriamoci i salari, le famiglie non spendono. E, nell’attesa che
la frutta scenda di prezzo, poca gente al mercato. Contribuendo, quindi, ancor
di più alla crisi.
È
l’Italia di
questa estate duemilaquattordici dei segni “meno” e del tempo
autunnale. Il termine deflazione sembra non appartenere più ai manuali
di economia: fa parte ormai dello status di precariato sociale che
avvolge la nostra penisola in una spirale di depressione cronica. Nonostante un
giovane presidente del Consiglio continui a spronare le famiglie e i
consumatori in un atto di fede nel buon futuro. I provvedimenti maggiori del
Governo portano il nome, appunto, di sblocca-Italia.
Eppure, al
di là dei termini
giornalistici, basta percorrere le autostrade del belpaese per accorgersi dell’impasse.
Non c’è proprio
nessuno. Si viaggia che è
un
piacere, niente file oceaniche, e il famoso esodo di agosto se ne è andato a
dormire. E sì che già da un paio
d’anni l’Autosole
era lo specchio dei nostri giorni, con tutte quelle automobili cariche all’inverosimile
di ogni cianfrusaglia (proprio come quaranta anni fa), in partenza per i paesi
natii e con a bordo i nonni (altrimenti chi lo paga il viaggio e la sosta all’autogrill?).
Anticipavano
il presente. Così, oggi, poche automobili familiari, e pochi nonni: evidentemente
devono aver finito la cassa comune. La pensione serve a tante cose: ad
alleviare i disagi del figlio disoccupato, a pagare le bollette dell’altro
figlio, e a regalare la vacanza-studio all’estero al caro nipote.
C’è crisi, si
vede. Non c’è viaggio.
Non c’è sogno di
futuro diverso. Nessuno che sorride all’autogrill, nessuno che si arrabbi. Ci si abitua
pian piano a raccattare le piccole briciole rimaste. Gli stabilimenti balneari
vuoti, le montagne libere dal chiacchiericcio inutile, le autostrade vuote dei
rumori, le parole orfane di racconti.
C’è solo un
risvolto della medaglia che il termine “deflazione”
non
contempla: sobrietà. Sì, esatto: sobrietà, e non “risparmio”, come nel
dopoguerra abbiamo imparato a conoscere, anche perché oggi non si
risparmia più niente.
Sobrietà, dunque,
come una parola che evoca quasi scenari spirituali francescani. E sobrietà, come ultimo
antidoto all’euro tedesco e alla spesa pubblica italiana, propiziatrice di ethos
positivo e di pratica virtuosa a quel (ri)abituarsi al fare con poco.
Forse i grandi economisti e i ricchi banchieri
dovranno aggiornare il lessico della crisi economica. La sobrietà, che gli
italiani quando vogliono sanno praticare molto bene, sconfiggerà la
deflazione. E anche l’inflazione. È una parola
che va a braccetto con bene comune, e che dovrebbe trovare posto nei nostri
comportamenti pubblici, come altolà
allo
sperpero dei consumi, e come uso buono e consapevole di alcune pratiche
quotidiane di attenzione al denaro, cominciando dal bilancio familiare.
Talvolta (spesso) la macroeconomia dipende dalla
microeconomia. È un
atteggiamento culturale ed etico importante che, più di
provvedimenti governativi, che pure servono, può essere
davvero il grimaldello giusto per sbloccare il nostro paese. E può tornare
utile come pratica virtuosa che viene dal basso, sperando che si allarghi
presto nella sfera pubblica.
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