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mercoledì 24 settembre 2014

La Chiesa italiana sulla via del cambiamento


Da quel 13 marzo del 2013, gran parte dell’opinione pubblica si è come risvegliata sotto l’ombra del cupolone di San Pietro. Tanti, tantissimi, soprattutto i più lontani dalla Chiesa, hanno salutato la “novità” Francesco all’interno di un processo di rinnovamento, più fedele alla Parola che non all’istituzione, atteso per lunghi anni. Altri, come è legittimo, hanno invece fatto notare come questo pontificato non gli vada per niente bene.
Le domande di speranza, tenerezza e misericordia suscitate dall’apostolato di Francesco sono impressionanti. Qualcuno dice che, ultimamente, abbiano avuto una battuta di arresto dovute al fatto che, comunque, Francesco, in quanto capo supremo della cattedra di Pietro, non può non ascoltare chi non la pensa come lui. Vero. Come è vero che i due precedenti papi non abbiano avuto lo stesso atteggiamento di ascolto, molto più propensi invece ad assecondare le opinioni e le scelte fedeli al loro pontificato. In questo senso il pontificato di Francesco è davvero una novità: lo stile dell’ascolto, di pura matrice gesuitica, e della partecipazione alle decisioni sembra una caratteristica fondamentale di questo papa.
Ciò non toglie che alcune idee di fondo appaiono nella mente e nel cuore di Francesco non più rinviabili. La questione del ministero Petrino, sia in rapporto alle Chiese sorelle che all’interno della stessa Chiesa cattolica, vedi i Sinodi e l’apporto delle singole Conferenze episcopali mondiali alla stesura del programma di un pontificato; un’attenzione alla trasparenza finanziaria e gestionale degli enti che contribuiscono a far funzionare la macchina statale di Pietro; e, infine, una questione ecclesiale e pastorale molto importante come la preparazione sacerdotale e l’attaccamento al vangelo dei vescovi, che, come i semplici presbiteri, devono avere l’odore delle pecore e non altro. Insomma, un nuovo annuncio missionario.
Senza grandi giri di parole, è evidente che Francesco non sopporti per niente quell’aura di conservatorismo e di eccesso di tradizione (solo estetica) che invece ancora si coltiva in parecchi ambienti ecclesiastici, e in molti vescovi e cardinali.
Francesco sa che è difficile imporre nuove passioni teologali e pastorali, nuovi slanci per l’annuncio missionario. Sa che la formazione spirituale di quella che finora è ancora la classe dirigente della Chiesa cattolica è nata e si è sviluppata in una dato periodo storico e sotto il pontificato di due papi diversi, nello stile, nel carattere, nel modo di rapportarsi al vangelo, rispetto al papa attuale. Ecco perché è convinto che, al di là di encicliche, esortazioni pastorali o motu proprio, egli abbia uno strumento fondamentale per cambiare la fisionomia della Chiesa cattolica nel mondo: la designazione dei vescovi. Per i cardinali già abbiamo visto delle novità nel recente concistoro, ma, seppur importanti perché eleggeranno il futuro papa, essi non sono così decisivi nel cambiamento della classe dirigente media della Chiesa cattolica quanto i vescovi. Cioè, coloro che guidano il popolo di Dio in ogni angolo del mondo.
Per stare in Italia, nel prossimo anno, avremo un avvicendamento che riguarderà circa 40 vescovi, un quinto degli attuali. Evidente che si tratta di una svolta storica. In precedenza, salvo i casi di diocesi piccole o poco importanti, dove la designazione arrivava attraverso un percorso codificato che partiva dalla Conferenza episcopale regionale fino al nunzio in Italia, per poi passare alla Congregazione dei vescovi, le scelte sono sempre arrivate dall’alto. O per decisioni del papa in persona oppure per una mediazione, tutta politica, tra cardinali aventi un certo seguito oltretevere. È il caso, ad esempio, ma non solo, di Milano, Venezia, Palermo, Napoli, Firenze, Torino, Genova.
Ora, nell’arco di poco tempo, c’è la possibilità di cambiare realmente la classe dirigente della Chiesa cattolica in Italia. Francesco lo sa. E lo sa anche chi non sostiene il papa. Quella classe dirigente che, in molti casi, e per molti anni, ha tenuto le sorti del cattolicesimo italiano dietro il riparo certo di un conservatorismo fine a se stesso o, peggio, in un eccesso di sintonia con una religione civile che ha avuto come unico scopo quello di essere interlocutrice privilegiata del potere politico condensando l’annuncio del vangelo nella difesa dei cosiddetti valori non negoziabili e derubricando la speranza “contagiosa” del vangelo a una sorta di rendiconto tra dare e avere.
Quaranta nuovi vescovi, dunque. Ce ne è abbastanza per capire presto in quale modo cambierà, e se cambierà, la Chiesa italiana.

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