Da
quel 13 marzo del 2013, gran parte dell’opinione pubblica si è come risvegliata
sotto l’ombra del cupolone di San Pietro. Tanti, tantissimi, soprattutto i più
lontani dalla Chiesa, hanno salutato la “novità” Francesco all’interno di un
processo di rinnovamento, più fedele alla Parola che non all’istituzione,
atteso per lunghi anni. Altri, come è legittimo, hanno invece fatto notare come
questo pontificato non gli vada per niente bene.
Le
domande di speranza, tenerezza e misericordia suscitate dall’apostolato di
Francesco sono impressionanti. Qualcuno dice che, ultimamente, abbiano avuto
una battuta di arresto dovute al fatto che, comunque, Francesco, in quanto capo
supremo della cattedra di Pietro, non può non ascoltare chi non la pensa come
lui. Vero. Come è vero che i due precedenti papi non abbiano avuto lo stesso
atteggiamento di ascolto, molto più propensi invece ad assecondare le opinioni
e le scelte fedeli al loro pontificato. In questo senso il pontificato di
Francesco è davvero una novità: lo stile dell’ascolto, di pura matrice
gesuitica, e della partecipazione alle decisioni sembra una caratteristica
fondamentale di questo papa.
Ciò
non toglie che alcune idee di fondo appaiono nella mente e nel cuore di Francesco
non più rinviabili. La questione del ministero Petrino, sia in rapporto alle
Chiese sorelle che all’interno della stessa Chiesa cattolica, vedi i Sinodi e
l’apporto delle singole Conferenze episcopali mondiali alla stesura del
programma di un pontificato; un’attenzione alla trasparenza finanziaria e
gestionale degli enti che contribuiscono a far funzionare la macchina statale
di Pietro; e, infine, una questione ecclesiale e pastorale molto importante
come la preparazione sacerdotale e l’attaccamento al vangelo dei vescovi, che,
come i semplici presbiteri, devono avere l’odore delle pecore e non altro. Insomma,
un nuovo annuncio missionario.
Senza
grandi giri di parole, è evidente che Francesco non sopporti per niente
quell’aura di conservatorismo e di eccesso di tradizione (solo estetica) che
invece ancora si coltiva in parecchi ambienti ecclesiastici, e in molti vescovi
e cardinali.
Francesco
sa che è difficile imporre nuove passioni teologali e pastorali, nuovi slanci
per l’annuncio missionario. Sa che la formazione spirituale di quella che
finora è ancora la classe dirigente della Chiesa cattolica è nata e si è
sviluppata in una dato periodo storico e sotto il pontificato di due papi
diversi, nello stile, nel carattere, nel modo di rapportarsi al vangelo, rispetto
al papa attuale. Ecco perché è convinto che, al di là di encicliche, esortazioni
pastorali o motu proprio, egli abbia uno strumento fondamentale per cambiare la
fisionomia della Chiesa cattolica nel mondo: la designazione dei vescovi. Per i
cardinali già abbiamo visto delle novità nel recente concistoro, ma, seppur
importanti perché eleggeranno il futuro papa, essi non sono così decisivi nel cambiamento
della classe dirigente media della Chiesa cattolica quanto i vescovi. Cioè,
coloro che guidano il popolo di Dio in ogni angolo del mondo.
Per
stare in Italia, nel prossimo anno, avremo un avvicendamento che riguarderà
circa 40 vescovi, un quinto degli attuali. Evidente che si tratta di una svolta
storica. In precedenza, salvo i casi di diocesi piccole o poco importanti, dove
la designazione arrivava attraverso un percorso codificato che partiva dalla
Conferenza episcopale regionale fino al nunzio in Italia, per poi passare alla
Congregazione dei vescovi, le scelte sono sempre arrivate dall’alto. O per decisioni
del papa in persona oppure per una mediazione, tutta politica, tra cardinali aventi
un certo seguito oltretevere. È il caso, ad esempio, ma non solo, di Milano,
Venezia, Palermo, Napoli, Firenze, Torino, Genova.
Ora,
nell’arco di poco tempo, c’è la possibilità di cambiare realmente la classe
dirigente della Chiesa cattolica in Italia. Francesco lo sa. E lo sa anche chi
non sostiene il papa. Quella classe dirigente che, in molti casi, e per molti
anni, ha tenuto le sorti del cattolicesimo italiano dietro il riparo certo di
un conservatorismo fine a se stesso o, peggio, in un eccesso di sintonia con
una religione civile che ha avuto come unico scopo quello di essere
interlocutrice privilegiata del potere politico condensando l’annuncio del
vangelo nella difesa dei cosiddetti valori non negoziabili e derubricando la
speranza “contagiosa” del vangelo a una sorta di rendiconto tra dare e avere.
Quaranta
nuovi vescovi, dunque. Ce ne è abbastanza per capire presto in quale modo
cambierà, e se cambierà, la Chiesa italiana.
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