Sì,
è vero: avrei preferito che al congresso per eleggere il segretario del Pd
romano si andasse alla conta. Amo la democrazia dei numeri: abitua al rispetto
dell’avversario, evita gli equivoci (inciuci), rende trasparente il rapporto
tra eletto ed elettore. Non ho mai sopportato quell’invito all’”unità” più che
alla legittima competizione che mi rimanda a tristi epoche storiche in cui
comitati centrali e riunioni correntizie la facevano da padrone. Ma, allo
stesso tempo, non mi sono scandalizzato se l’amico e fratello Tommaso Giuntella
è stato eletto per acclamazione presidente del Pd romano. Anzi, a dirla tutta,
la notizia mi ha procurato una sottile vena di piacere.
Negli
ultimi tempi, da dietro le quinte, ho seguito il cammino politico di Tommaso
attraverso i suoi scritti, i suoi interventi pubblici, il suo chattare
continuamente sul web. E, anche se abito in un municipio diverso dal suo, ho
dovuto per forza essere informato sui suoi primi atti da consigliere “in
primis” del municipio I, cioè quello del centro storico, quartiere che è di
casa per chi fa informazione. Tommaso appartiene, per sangue generativo e credo
anche per scelta personale, alla grande tradizione del cattolicesimo
democratico di questo paese. Certo, più liberal,
più decisamente laica nei confronti di istituzioni e chiese. Più libera, direi,
anche rispetto a un passato fatto da professoroni, integerrimi intellettuali
che amavano frequentare più i sacri conventi che non la rete (che non c’era) o
il popolo. Tommaso, in questo, è decisamente diverso da quella generazione che,
ricordiamo, ha dato un forte contributo, anche di sangue, alla tutela delle
nostre libertà fondamentali e alla crescita del bene comune nel nostro paese.
Che io mi ricordi, dopo Rosy Bindi, mietitrice di voti per tanti anni nella
Veneto bianca, è l’unico catto-democratico-liberal, insieme forse a Michele
Nicoletti nell’amato Trentino, a “sfondare” elettoralmente.
A
Tommaso la gente, non solo i ragazzi, lo seguono. E poi lo votano. Sebbene il
suo cognome sia macchiato da discendenza reale cattodemocratica, lui, con
tenerezza, disarma la stirpe eletta con le armi del sorriso, dell’ironia e
dell’intelligenza. Tommaso non è stato chiamato in “quel” posto: se lo è
guadagnato. E non potrebbe essere altrimenti per uno che ha fatto la scelta
della politica, cioè di stare con la gente, nel quotidiano. Per Tommaso (per
adesso), non ci sono titoli accademici a decretarne il passo, così come avvenne
ai suoi illustri predecessori. Ma c’è quell’”odore delle pecore”, per dirla con
vescovo Francesco, che fa sì che quella proverbiale dizione lazzatiana che
usiamo spesso in tanti convegni, “costruire la città dell’uomo a misura d’uomo”,
non sia un vuoto parlarsi addosso, ma davvero l’avverarsi del sogno di Isaia
che trasforma le lance in vomeri.
Tommaso
usa bicicletta e vespa come la normalità di un adolescente che chatta su
facebook. Ha un lavoro, scrive su giornali nazionali, cita Chesterton come se
fosse il vicino di casa, ama l’ironia, cammina per montagne, si appassiona per
le nuove democrazie digitali, continua a essere scout, frequenta la curva sud dello
stadio Olimpico senza farsi mai mancare qualche buona pinta di birra nei pub
delle vicinanze, conosce i libri, quelli veri, suona strumenti da piantagione
di tabacco e cotone, e stila classifiche improbabili e quotidiane su rock-dem e
alleluja da brivido. In più, se non
bastasse, è sposato con una bellissima donna, prima cercata, attesa e infine
conquistata.
Ma ci
sono altre due cose che lo riguardano che mi mettono di buon umore. La prima è che
dei tre giovani scelti da Bersani per la sua campagna per le scorse primarie,
lui è l’unico che non ha fatto carriera (politica) e non è entrato in Parlamento.
La seconda, più personale, è che, voglia o non voglia, è stato battezzato nella
chiesa di San Melchiade, perché suo padre e sua madre, durante gli anni del
ruinismo dominante e del wojtylismo prorompente, scelsero di fare la buona
battaglia in una estrema periferia della città, oggi diventata ormai centro.
Tommaso porta quindi su di sé quella macchia di “popolarità” che lo distingue
dal resto del gruppo elitario dei cattodemocratici.
In
uno degli ultimi colloqui che ebbi con papà Paolo, ricordo i suoi (legittimi)
dubbi sul futuro del giovanissimo Tommaso anche se, ebbe a dirmi, «scrive
benissimo, “quasi” meglio di me». Lo rassicurai dicendo che i geni, specie
quelli incompresi, escono fuori dopo.
Ecco
perché, tra l’aratro, l’iphone e le stelle, la rivoluzione della tenerezza di
Tommaso Giuntella mi affascina e mi sorprende.
E rende
ai miei occhi la politica, oggi, meno ostile. Forse, addirittura, più simpatica.
Capace di far memoria dell’aratro, ma decisamente in cammino attraverso le
incognite e il mistero di un cielo stellato.
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