C’è chi parla di nuova
evangelizzazione. Chi di “nuova era” della Chiesa cattolica. Chi del ritorno al
Concilio Vaticano II. Ancora, c’è chi dice che la Chiesa, finalmente, ha
ripreso a dialogare con il mondo. Certo, papa Francesco sta rivoluzionando a
modo suo la teologia e la pastorale della comunità ecclesiale: i suoi gesti, le
sue parole, e le sue decisioni in ordine a cambiamenti radicali nella struttura
organizzativa della Chiesa fanno discutere chi non è d’accordo e gioire chi
questi cambiamenti li sognava da tempo.
Il C8, gli otto cardinali scelti
da Francesco per ridisegnare il volto della Curia, sono al lavoro; la riforma
dello Ior, la banca vaticana, è ben più di un progetto, quasi una realtà.
Francesco ha chiesto alla Cei, la Conferenza episcopale italiana, una riforma
della sua organizzazione, oggi troppo elefantiaca e costruita più per un clero
in contrapposizione con tutto quello che c’è “fuori” e quindi capace di mediare
rendite di posizioni con la politica. La riforma non tocca solo
l’organizzazione interna della Cei ma va a incidere profondamente anche nei
gangli della pastorale e dell’impegno missionario delle diocesi. Uno
snellimento di esse, infatti, è previsto. Sono 226 in Italia: troppe agli occhi
di Francesco e del nuovo segretario di stato Parolin. Sprechi inutili,
soprattutto economici. Come inutile sembra essere il perpetrarsi di uno status ecclesiale forgiato però in tempi
diversi dall’attuale. Anche se
la Cei fa sapere che i criteri che si riferiscono all’eventuale taglio delle
diocesi riguardano il numero degli abitanti, l’estensione territoriale, le
particolari tradizioni di radicamento religioso.
Una riforma che sarà presentata
a gennaio: nel maggio del 2014 avremo un nuovo presidente della Cei eletto
direttamente dall’assemblea dei vescovi italiani e non dal papa e anche a breve
un nuovo segretario generale, visto che mons. Mariano Crociata è stato eletto
vescovo della diocesi di Latina-Terracina-Sezze-Priverno. Non è cosa da poco
per le vicende storiche del cattolicesimo in Italia.
Per mons. Crociata, persona
mite, intelligente e preparata, ex vescovo di Noto e già collaboratore del
promettente arcivescovo di Monreale Cataldo Naro, prematuramente scomparso nel
2006, si tratta evidentemente di una diminutio,
anche se il prelato ha accettato la nomina in spirito di servizio e obbedienza.
Nominato da papa Benedetto XVI nel settembre 2008 segretario generale della
Cei, ha coordinato la pastorale della Chiesa italiana in anni difficili e di transizione,
prima con l’accoppiata Bagnasco-Benedetto e oggi con Francesco. I suoi
predecessori sono stati più “fortunati”: Ennio Antonelli e Giuseppe Betori sono
andati a Firenze, Camillo Ruini a Roma, Dionigi Tettamanzi a Genova. Tutte sedi
cardinalizie. Francesco, con l’aiuto di
Parolin, sta entrando di peso nella questione “Italia” e dopo aver suggerito
alla Cei di nominare un semplice prete come segretario generale, in spirito di
servizio e non come trampolino di lancio per future carriere ecclesiali, ha
iniziato a imporre, in maniera non più soft, uno stile diverso anche
all’interno della più complicata e grande organizzazione ecclesiastica del
mondo. La nomina “vescovile” di mons. Crociata, comunque importante, rende
chiaro a tutti in quale direzione voglia muoversi la riforma voluta da
Francesco. Una riforma che intende “liberare” i tanti segni profetici della
Chiesa italiana nell’aiuto ai bisognosi e nell’annuncio di una Parola
accogliente che accarezzi il volto di tutti.
L’impressione, a volte, è che la Chiesa
italiana fatichi a sintonizzarsi al nuovo corso. Eppure il papa era stato fin
troppo chiaro nel suo primo incontro con i vescovi italiani riuniti a Roma per
l’assemblea della Cei. «La mancata vigilanza – secondo Francesco – rende
tiepido il pastore, lo fa distratto, dimentico e persino insofferente; lo
seduce con la prospettiva della carriera, la lusinga del denaro e i compromessi
con lo spirito del mondo; lo impigrisce, trasformandolo in un funzionario, un
chierico di stato preoccupato più di sé, dell'organizzazione e delle strutture,
che del vero bene del Popolo di Dio. Si corre il rischio, allora, come l’apostolo
Pietro, di rinnegare il Signore, anche se formalmente ci si presenta e si parla
in suo nome; si offusca la santità della Madre Chiesa gerarchica, rendendola
meno feconda».
Le sfide che Francesco ha davanti a sé
sono essenzialmente tre: una riforma interna della Chiesa, la sua missione nel
mondo, il ruolo del ministero petrino. E se per la riforma interna, forse la
più difficile da applicare, ha istituito una commissione apposita, per la nuova
evangelizzazione e il ruolo del papa parlano le sue parole e i suoi gesti pieni
di umanità.
È indubbio che l’evangelizzazione e la
missionarietà dell’annuncio della Parola di Dio è il punto di svolta
dell’attuale pontificato. Il mondo e i popoli hanno bisogno di speranza. La
Chiesa universale come vorrà abbracciare questa speranza? Tenerezza,
misericordia, perdono, attenzione alla sofferenza: sono questi i termini di un
nuovo lessico della speranza dove credenti e non credenti possono abbeverarsi
senza paura di perdere i propri riferimenti religiosi oppure sentirli troppo
aggressivi.
Una missionarietà che torna a pescare slanci
e sentimenti nella collegialità, nella comunione, nella sinodalità. Sono queste le parole chiavi
per comprendere la riforma che papa Francesco vuole imprimere al governo della
Chiesa. Una riforma che dovrà appoggiarsi a un apparato organizzativo limpido,
trasparente, sobrio ma che trae linfa vitale dall’autorità petrina che è
“costretta” a collaborare con le Chiese locali e con il laicato.
Non
un sommo pontefice che comanda, ma un Petrus
che attua i consigli della grande Chiesa universale. In compagnia dei fratelli
vescovi.
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