La notizia è arrivata via web nel giorno
dell’allerta meteo per Roma. Inaspettata, per molti. Ma benedetta. L’ha data mons.
José Luis Escobar, arcivescovo di San Salvador, al clero della sua diocesi,
raccontando di averla saputa direttamente dalla viva voce di papa Francesco. Monsignor
Oscar Arnulfo Romero sarà beatificato l’anno prossimo. Non si sa ancora la
data, né il luogo. Ma la notizia c’è, ed è arrivata come un fulmine a ciel
sereno.
Una beatificazione, quella di mons. Romero, il
vescovo di San Salvador ucciso mentre teneva l’ostia in mano dagli squadroni
della morte del suo paese il 24 marzo 1980, attesa da anni, anche se di fatto,
non ancora ufficializzata dal Vaticano. Un martire, e un profeta, che è stato
per molti campesinos latino
americani, ma anche per molti cristiani occidentali in cerca di testimonianze
profetiche, l’apostolo della buona
battaglia che non arretra di fronte al male e alle minacce di morte.
Sì, un vescovo che ha saputo realmente calarsi a
ruolo di pastore del suo popolo, in anni difficili, dove la democrazia era una
parola sbagliata lasciata stare in bocca alle dittature militari che, nel
frattempo, lasciavano per terra morti, dispersi e una serie di ferite ancora
non curate. Il popolo e la terra: le due anime di mons. Romero. Una terra da
coltivare e amare. E un popolo al quale è stato vicino: lo ha soccorso, curato,
confortato spiritualmente, aiutato a pregare e a trovare la forza di appagare
la fame.
Ecco perché, per il popolo salvadoregno, e non
solo da oggi, mons. Romero è più di un santo da venerare. Semmai è l’esempio concreto
di come democrazia e uguaglianza facciano rima con fraternità e comunione.
Per noi residenti dall’”altra parte del mondo”,
Romero invece è stato il testimone d’obbligo – per via di un martirio nell’atto
di consacrare la sua vita a Dio – per assaggiare
la profezia evangelica che non è, come pensano alcuni, utopia irraggiungibile o
sogno infranto. Il valore del martirio di Romero, nel momento in cui papa Francesco,
e con esso la Chiesa tutta, si pronuncia a proclamarlo beato, sta
nell’attualità della buona notizia.
Disarmante nella sua vicinanza all’evangelio. Per i cristiani e i “lontani”
dell’Occidente ricco, la beatificazione di Romero va “oltre” la bella notizia in
sé, per approdare invece a un’autentica svolta di attenzione ecclesiastica che
si pone in vicinanza ai drammi della povertà e dell’ingiustizia che invadono il
mondo.
Romero è dei salvadoregni, ed è giusto che sia
così. Ma è anche, per vie diverse, anche nostro. E di tutti coloro che per
tanti anni, ogni 24 marzo, andavano alla basilica dei Santi Apostoli in Roma a
far memoria di una Chiesa vicina ai poveri. C’erano don Tonino Bello, don Luigi
Di Liegro, don Luigi Bettazzi, i tanti profeti (a volte) dimenticati della
buona battaglia che odoravano di “buona notizia”.
Con mons. Romero, il Vangelo ha contaminato la
storia. Le ha dato una mano per aggrapparsi al filo della speranza e delle
tenerezza. Quella misericordia che adesso, con papa Francesco, questa Chiesa
sta sperimentando lungo le periferie dell’esistenza.
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