Quell’immagine di
un’automobile che porta via il corpo accasciato del Presidente degli Stati
Uniti d’America fa parte, ancora oggi, di una storia che ha cambiato il mondo.
È il 22 novembre 1963 quando a Dallas veniva ucciso John Fitzgerald Kennedy. Le immagini girate dal cineamatore
Abraham Zapruder parlano da sole: 26 secondi e 486 fotogrammi che raccontano in
super 8 il momento nel quale l’America ha perso il suo Presidente e forse la
sua invulnerabilità.
Ci sono intere generazioni di
persone che sono cresciute nel mito “kennediano” dei primi anni ’60. Un tempo
favorevole per la crescita economica e sociale, ma anche per tutte quelle
libertà individuali che l’America, appunto, viveva sulla propria pelle. Con l’avvento
di Kennedy e dello stile-Kennedy – ottima oratoria, sorriso, simpatia,
popolarità – arriva una ventata di freschezza nella politica mondiale che cambia
letteralmente l’immagine stessa della politica: l’on the road, e temi come la giustizia economica, la libertà di
espressione e di religione, la lotta alle povertà, diventano il nuovo lessico
di un ethos pubblico che ha voglia si svegliarsi da una guerra passata e
da una nuova guerra fredda Usa-Urss alle porte che sembra aver diviso il mondo
in due parti. Fino a quella ricerca ostinata della pace, molto probabilmente
causa dell’attentato stesso.
Anni bellissimi, quelli. Gli anni
dei Beatles. E di John Fitzgerald Kennedy, capace di incollare la gente a un televisore o
alla radio attraverso le sue parole sui diritti fondamentali di ogni uomo che
anche l’America, sì, l’America libera, doveva approfondire.
Con papa Giovanni XXIII e Nikita Kruscev,
segretario del partito comunista russo, formano una leadership per una nuova
speranza. L’11 aprile del 1963 Giovanni
XXIII pubblica l’enciclica Pacem in
Terris. Non un’enciclica qualunque: qualche mese prima, nell’ottobre del
1962, c’è la grave crisi di Cuba tra Usa e Urss e i venti di guerra soffiano
forte. Le navi sovietiche si avvicinano pericolosamente alle navi americane con
il rischio di un’apocalisse nucleare, quando il papa “buono” invia un messaggio
a Kennedy e a Kruscev che fu letto alla radio. I governanti – invoca il papa –
«facciano tutto ciò che è in loro potere per scongiurare la guerra… Promuovere,
favorire, accettare trattative a ogni livello e in ogni tempo». A Mosca la Tass
riprende subito il testo del messaggio e la Pravda gli dedica un intero
articolo. Il giorno dopo Kruscev invia a Kennedy la lettera risolutiva della
crisi che propone il ritiro dei missili da Cuba in cambio della garanzia a non
invadere l’isola.
È la vittoria della vita sulla
morte. Della speranza che la politica può fare qualcosa, se solo volesse. E
oggi, a 50 anni di distanza da un omicidio che ancora non vede punire i
responsabili e che comunque ha sconvolto la storia, il volto sorridente di John Fitzgerald
affascina ancora chi lo guarda.
Un sogno che si è
fermato? Forse. Certo è che senza John Fitzgerald Kennedy oggi noi non saremmo “noi”
e l’America, forse, sarebbe diventata un tiranno “democratico”.
Il debito che
abbiamo tutti con il liberal Kennedy
è immenso. Di progettualità politica, di futuro, di democrazia. Forse, solo
adesso, cominciamo a rendercene conto.
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