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venerdì 17 ottobre 2014

Paolo VI, il papa della porta accanto


Ho un ricordo netto di quel giorno d’agosto. Era il 6 di un anno balordo, il 1978. Qualche mese prima, il 16 marzo, facevo le scuole medie, non ci fecero uscire, perché rapirono Aldo Moro e uccisero gli uomini della scorta. Ma ricordo tutto. Sì, c’era solo la Rai e potevamo guardare solo quella rete, ma i due “fratelli” Aldo Moro e Paolo VI me li ricordo in modo netto. La preghiera di Paolo VI implorando misericordia e la liberazione per il suo amico Moro, e il modo in cui la tv diede la notizia della morte del papa stesso.
Ho convissuto gran parte della mia vita con addosso l’odore e l’intelligenza di Paolo VI. Mi hanno fatto compagnia. Forse perché il mio parroco, innamorato del Concilio e lombardo, seppur incardinato a Roma, ha sempre compreso nei suoi programmi pastorali e spirituali l’esperienza di san Francesco e la docile cultura di Paolo VI. Insomma, ho assaggiato pane e Paolo VI per gran parte della mia vita, fino a quando l’età mi ha permesso di iniziare a capire, in modo indipendente, chi fosse Giovanni Battista Montini.
Credo che oggi la Chiesa, con un po’ di ritardo, riconosca le sue virtù esemplari di buon cristiano e di padre della Chiesa. Perché mi è sempre più chiaro che la grandezza di Paolo VI stia nell’aver capito, fin dall’inizio, che la complessità e tragicità del tempo che viveva (brigate rosse, crisi economica, guerra fredda, povertà del terzo mondo) assumevano una risposta “in dialogo” con l’uomo moderno, sulla scia del Concilio Vaticano II, ma, al contempo, erano ben presenti nella sua coscienza i limiti di questa stessa risposta, compresi e rinchiusi dentro le paure e le rigidità di un clero e una gerarchia cattolica ancora non pronta ad applicare il Concilio.
La grandezza di Paolo VI è tutta qui. Conservare l’unità della Chiesa cattolica e allargare il più possibile l’annuncio del vangelo agli uomini del nostro tempo. Poi, poco prima di morire, sono rimaste impresse queste parole che mi piace ricordare: «e, benché ci consideriamo l’ultimo e indegno successore di Pietro, ci sentiamo a questa soglia estrema confortati e sorretti dalla coscienza di aver instancabilmente ripetuto davanti alla Chiesa e al mondo: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Matth. 16, 16); anche noi, come Paolo, sentiamo di poter dire: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede (2 Tim. 4, 7)”».
Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Mi basta. In un tempo di frammenti e verità nascoste, l’assunzione di fede di Paolo VI vale più di un accesso privilegiato all’altare dei santi.
Sobrietà, intelligenza, dialogo: le “docili” armi di Paolo VI oggi più che mai paiono essere il lessico condiviso della buona battaglia.

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