Visualizzazioni totali

lunedì 20 ottobre 2014

L'ultimo muro di papa Francesco


Sta sgretolando le mura della vecchia cittadella assediata dai barbari del relativismo culturale e del modernismo anticattolico. Con gesuitica perseveranza, e francescano sorriso. Senza encicliche, non pronunciando dogmi e condanne. La Congregazione per la dottrina della fede è nel dimenticatoio, non si sa più nulla di essa, se non fosse che il card. Gerhard Ludwig Müller, suo prefetto, è stato il capo della fronda anti-Bergoglio al Sinodo sulla famiglia. Come se ogni verbo che abbia un pur minimo accenno di somiglianza con dovere, potere, ottenere, sia stato derubricato a lessico di serie “b”. Non per volere di qualcuno. Bensì per un atto liberale e molto evangelico di buona speranza dove il sorriso, la tenerezza, la misericordia, il dialogo con (ogni) uomo, hanno disintegrato le distanze temporali e gerarchiche tra la Chiesa che legifera e la Chiesa che ama.
Francesco offre la sua solitudine di Petrus al servizio di una Chiesa che ha voglia di uscire dal guado della difesa ad oltranza dal mondo contaminato. Lo fa alla sua maniera. Magari molto “sudamericana”, come dicono i suoi detrattori. Intanto sta demolendo il tempio dell’ipocrisia burocratica e delle mediazioni curiali. Perché, dopo il capolavoro dell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, giudicata dai suoi detrattori materiale per campesinos, che infatti piace tanto al popolo di Dio e ai tanti lontani sparsi per il mondo e molto meno a taluni presbiteri vescovi e cardinali, sta portando la sua (e la nostra) Chiesa, con scosse telluriche che sanno di gesti, di volti, di abbracci, verso la terra dell’incontro con l’altro.
La sinodalità. Non a caso fu proprio l’altro uomo solo, Paolo VI, a inventarsi il Sinodo. La forza del dialogo, e quindi del parlarsi in faccia, sta avendo con Francesco la sua incarnazione terrena. È profumata di olio santo e di maleodorante polvere di strada. Sa di parresia evangelica, ma non ha paura delle insidie delle umane debolezze.
Sì, fa paura questo Francesco. Oggi ancora di più. Lo avevano messo lì, sul trono di Pietro, per tenere a bada quella banda di manigoldi che aveva scambiato la sede apostolica per una pattumiera di scandali e ripicche, dove il dio denaro era molto più ben voluto del Signore della Croce. Non avrebbero mai creduto che Francesco avesse il coraggio di accompagnare la Chiesa lungo le strade del vangelo, senza ulteriori deviazioni.
La valenza della discussione al Sinodo ha una portata rivoluzionaria, per quanto “rivoluzione” sia una parola mal digerita dai potentati ecclesiastici, e sebbene il più grande rivoluzionario della storia fu proprio Gesù di Nazareth. È rivoluzionaria nello stile, nel modo in cui i lavori sinodali si sono svolti. E quei voti ai 62 punti della Relatio Synodi finale, voluti al papa in persona, come se fosse la naturale conseguenza di un dibattito aperto e vero, fa entrare, di diritto e di etica, la democrazia all’interno dell’istituzione più graniticamente monarchica  del mondo.
Una democrazia che si aggrappa, però, non ai numeri ma alla forza dello Spirito e alla bellezza del vangelo. Una democrazia che squarcia il velo del tempio e rende la solitudine di Francesco, questa solitudine evangelicamente cristiana e laicamente etica, non un limite ma una straordinaria occasione di nuova speranza.
Tempo fa, Enzo Bianchi mi diceva che ogni rivoluzione, anche ecclesiale, porta con sé divisioni, anche dure. Ecco perché la solitudine di Francesco è, deve essere, oggi, la forza e il coraggio di un popolo di Dio che vede all’orizzonte i segni, inevitabili, di una terra che abbraccia il cielo.
Non è una questione di gay e divorziati. Qui è in gioco una Chiesa che più che accogliere, deve essere accolta. Francesco lo sa. E come per tutti i grandi papi e santi della millenaria storia della Chiesa, ce ne accorgeremo un po’ più tardi. Nella speranza che il tragitto sia stato, almeno, un po’ intrapreso.

Nessun commento:

Posta un commento