Sta
sgretolando le mura della vecchia cittadella assediata dai barbari del
relativismo culturale e del modernismo anticattolico. Con gesuitica perseveranza,
e francescano sorriso. Senza encicliche, non pronunciando dogmi e condanne. La
Congregazione per la dottrina della fede è nel dimenticatoio, non si sa più
nulla di essa, se non fosse che il card. Gerhard Ludwig Müller,
suo prefetto, è stato il capo della fronda anti-Bergoglio al Sinodo sulla
famiglia. Come se ogni verbo che abbia un pur minimo accenno di somiglianza con
dovere, potere, ottenere, sia stato
derubricato a lessico di serie “b”. Non per volere di qualcuno. Bensì per un
atto liberale e molto evangelico di buona speranza dove il sorriso, la
tenerezza, la misericordia, il dialogo con (ogni) uomo, hanno disintegrato le
distanze temporali e gerarchiche tra la Chiesa che legifera e la Chiesa che
ama.
Francesco
offre la sua solitudine di Petrus al servizio di una Chiesa che ha voglia di
uscire dal guado della difesa ad oltranza dal mondo contaminato. Lo fa alla sua
maniera. Magari molto “sudamericana”, come dicono i suoi detrattori. Intanto
sta demolendo il tempio dell’ipocrisia burocratica e delle mediazioni curiali.
Perché, dopo il capolavoro dell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, giudicata dai suoi detrattori materiale per campesinos, che infatti piace tanto al
popolo di Dio e ai tanti lontani sparsi
per il mondo e molto meno a taluni presbiteri vescovi e cardinali, sta portando
la sua (e la nostra) Chiesa, con scosse telluriche che sanno di gesti, di
volti, di abbracci, verso la terra dell’incontro con l’altro.
La sinodalità. Non a caso fu proprio
l’altro uomo solo, Paolo VI, a inventarsi il Sinodo. La forza del dialogo, e
quindi del parlarsi in faccia, sta avendo con Francesco la sua incarnazione
terrena. È profumata di olio santo e di maleodorante polvere di strada. Sa di parresia
evangelica, ma non ha paura delle insidie delle umane debolezze.
Sì,
fa paura questo Francesco. Oggi ancora di più. Lo avevano messo lì, sul trono
di Pietro, per tenere a bada quella banda di manigoldi che aveva scambiato la
sede apostolica per una pattumiera di scandali e ripicche, dove il dio denaro
era molto più ben voluto del Signore della Croce. Non avrebbero mai creduto che
Francesco avesse il coraggio di accompagnare la Chiesa lungo le strade del
vangelo, senza ulteriori deviazioni.
La valenza
della discussione al Sinodo ha una portata rivoluzionaria, per quanto “rivoluzione”
sia una parola mal digerita dai potentati ecclesiastici, e sebbene il più
grande rivoluzionario della storia fu proprio Gesù di Nazareth. È rivoluzionaria
nello stile, nel modo in cui i lavori sinodali si sono svolti. E quei voti ai
62 punti della Relatio Synodi finale,
voluti al papa in persona, come se fosse la naturale conseguenza di un
dibattito aperto e vero, fa entrare, di diritto e di etica, la democrazia
all’interno dell’istituzione più graniticamente monarchica del mondo.
Una
democrazia che si aggrappa, però, non ai numeri ma alla forza dello Spirito e
alla bellezza del vangelo. Una democrazia che squarcia il velo del tempio e rende
la solitudine di Francesco, questa
solitudine evangelicamente cristiana e laicamente etica, non un limite ma una straordinaria
occasione di nuova speranza.
Tempo
fa, Enzo Bianchi mi diceva che ogni rivoluzione, anche ecclesiale, porta con sé
divisioni, anche dure. Ecco perché la solitudine
di Francesco è, deve essere, oggi, la forza e il coraggio di un popolo di Dio
che vede all’orizzonte i segni, inevitabili, di una terra che abbraccia il
cielo.
Non
è una questione di gay e divorziati. Qui è in gioco una Chiesa che più che
accogliere, deve essere accolta. Francesco lo sa. E come per tutti i grandi
papi e santi della millenaria storia della Chiesa, ce ne accorgeremo un po’ più
tardi. Nella speranza che il tragitto sia stato, almeno, un po’ intrapreso.
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