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venerdì 25 novembre 2011

Il fuoco e la speranza

Quel fuoco improvviso che brucia una vita umana ha lasciato di sasso molti navigatori della rete mondiale. Non è, infatti, un fuoco qualsiasi quello che avvolge la monaca tibetana Palden Choesto. Le immagini risalgono al 3 novembre scorso, ma sono state postate in rete da Free Tibet e riprese da altri siti web di esuli tibetani. Sono forti. La religiosa, in piedi, prende fuoco in mezzo a una via cittadina. Si odono le urla di orrore dei passanti e il canto dei monaci che recitano mantra. Una donna in abiti tradizionali si avvicina al rogo e lancia una sciarpa bianca rituale tibetana. Altrettanto forti, però, sono le riflessioni che questo fuoco sacro che brucia una vita umana può lasciare alla coscienza dell’internauta occidentale.
 
Il gesto nasconde disperazione per una “notizia” che dura ormai da più di mezzo secolo, da quando i cinesi hanno preso il controllo politico e, in parte religioso, del Tibet (ma solo in parte, perché il XIV Dalai Lama, Tenzin Gyatso, resiste dal 1959 a Dharamsala in India come capo religioso del popolo tibetano mentre si è dimesso lo scorso marzo come capo politico del governo in esilio). Una resistenza dolorosa che ha i caratteri del martirio, quella del popolo tibetano. A disperazione si aggiunge disperazione, perché forse, pensano parecchi monaci, una notizia sconvolgente come quella delle autoimmolazioni potrebbe risvegliare un po’ l’assonnata attenzione internazionale su uno dei drammi dei nostri tempi.
 
A partire da marzo, undici persone, tra cui due donne, si sono suicidate col fuoco per protestare contro la repressione cinese. Tutte le immolazioni sono avvenute nelle aree a popolazione tibetana della provincia cinese del Sichuan. Il luogo dove si è immolata Palden Choesto è la città di Kardze, un’area che è stata al centro della rivolta anticinese del 2008 e che da allora è sottoposta a uno stretto controllo da parte delle forze di sicurezza cinesi.
 
Nei giorni scorsi il Dalai Lama ha espresso dubbi sull’efficacia delle autoimmolazioni per protesta. «C’è del coraggio, un coraggio molto forte – ha detto parlando del sacrificio –. Ma quanta efficacia? Il coraggio da solo non sostituisce la saggezza. Bisogna utilizzare la saggezza». Tenzin Gyatso ha fatto molto per il suo popolo. Ha girato il mondo parlando di libertà, non violenza e diritto di poter praticare la propria religione. Spesso i governanti hanno fatto finta di non ascoltarlo, per evitare incidenti diplomatici con la Cina. Il Premio Nobel a lui assegnato il 10 dicembre del 1989 spiega bene chi è il XIV Dalai Lama. «Il Dalai Lama – si legge nelle motivazioni del Nobel – nella sua lotta per la liberazione del Tibet ha sempre e coerentemente rifiutato l’uso della violenza, preferendo ricercare soluzioni pacifiche basate sulla tolleranza e il rispetto reciproco, per preservare il retaggio storico e culturale del Suo popolo. Il Dalai Lama ha sviluppato la propria filosofia di pace a partire da un reverente rispetto per tutto ciò che è vivo, basandosi sul concetto della responsabilità universale che unisce tutta l’umanità al pari della natura. Il Comitato ritiene che Sua Santità abbia avanzato proposte costruttive e lungimiranti per la soluzione dei conflitti internazionali, e per affrontare il problema dei diritti umani e le questioni ambientali globali».
 
Oggi, nell’anno duemilaundici dell’era globalizzata, il Tibet fa i conti con una storia che non gli ha restituito ancora libertà. Un ragazzo di vent’anni, Gendhun Choekyi Nyima, riconosciuto nel 1995 come reincarnazione dell’attuale Dalai Lama, forse è ancora nelle carceri cinesi. Non se ne sa più nulla da quella data.
 
Ma Tenzin Gyatso ci crede alla pace. Eccome. Si è fatto da parte anche per questo lo scorso marzo. Affinché un giorno le nevi dell’Himalaya possano spegnere i fuochi di una protesta disperata che osa chiedere solo aiuto. E un po’ di rispetto.

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