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giovedì 1 marzo 2012

Olimpiadi a Londra: ancora un altro "no"


Il fermo e motivato “no” del governo Monti alle prossime Olimpiadi del 2020 che il mondo sportivo e, in parte, imprenditoriale si augurava si facessero a Roma, ha suscitato più di una sorpresa nell’opinione pubblica. Oltre a un atteggiamento di sobrietà e rigore richiamato più volte dal presidente Monti rispetto a una congiuntura economica difficile che l’Italia sta attraversando, c’è tutto il problema della trasparenza delle spese che i Giochi olimpici comportano. Il “no”, in questo senso, è un “no” da condividere.
Ma c’è un altro “no” che, senz’altro, dovremmo dire ad alta voce. La notizia è di questi giorni e lascia abbastanza sbigottiti. Sembra che, in occasione dei giochi di Londra 2012, si celi qualche “affare” eticamente non esemplare. Stiamo parlando del merchandise olimpico. Gli organizzatori dei Giochi del 2012 sperano che le mascotte di Londra 2012, Wenlock e Mandeville, faccia fare affari d’oro con le vendite di portachiavi, peluche, adesivi, badge, zaini e carte da gioco.
Fin qui, nulla di male. Dove sta allora il problema? Sta nel fatto che il costo nascosto dell’affare sarà pagato dai lavoratori cinesi impiegati per produrre questi beni. La Campagna internazionale di Play Fair dal titolo Giocando con i diritti dei lavoratori (Toying with Workers’ Rights) ha svelato gli altarini confermando che agli operai che preparano i gadget vengono corrisposti orari di straordinari eccessivamente lunghi, una paga molto bassa, e condizioni lavorative ai limiti della decenza.
In particolare il Rapporto ha indagato su due fabbriche cinesi. La fabbrica A produce i badge di Londra 2012 nel 2011, compresi quelli con le mascotte Wenlock e Mandeville. L’azienda occupa circa 500 lavoratori. La maggior parte di loro proviene da villaggi rurali cinesi, è di età compresa tra i 16 e i 24 anni e difficilmente hanno accesso alla casa, all’educazione e alle cure mediche. La fabbrica B sta producendo peluche e oggetti da collezione delle due mascotte olimpiche. Situata in un’area rurale della provincia di Guangdong, l’azienda impiega 600 lavoratori nei periodi di alta produttività. La Campagna Play Fair ha documentato la realtà delle condizioni in queste fabbriche rispetto agli standard sanciti dal codice di condotta del Comitato Organizzatore dei Giochi olimpici e paraolimpici di Londra che include l’Ethical Trading Initiative Base Code. Questo codice dovrebbe garantire un salario di sussistenza, lavoro sicuro, condizioni di lavoro sane e libertà di associazione sindacale, oltre a proibire il lavoro minorile e forzato.
I risultati, invece, sono preoccupanti. La ricerca sulle due fabbriche ha riscontrato violazioni di tutti e nove gli standard che gli organizzatori dei Giochi si sono impegnati a cercare di garantire nelle loro catene di fornitura.
Nessuno dei lavoratori è pagato abbastanza per coprire i bisogni fondamentali e assicurargli un salario dignitoso. Qualcuno non riceve il salario minino e gran parte dei lavoratori non ricevono le prestazioni di sicurezza sociale garantite dalla legge cinese. Per aumentare le paghe inadeguate i lavoratori fanno oltre 100 ore di straordinari al mese. Il limite legale è di 36 ore. Alcuni lavorano su turni di 24 ore, a altri non viene riconosciuto il giorno di riposo. Le condizioni di igiene e sicurezza nelle due fabbriche, sia nei luoghi di lavoro che nei dormitori messi a disposizione dei lavoratori, sono al limite della decenza. Alcuni non hanno un contratto, o non vedono la busta paga.
Ecco perché la notizia può diventare un’occasione di democrazia persa o guadagnata. Sta ai consumatori l’ultima parola. E al nostro libero e incondizionato “no”.

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