Io. Classe media (o forse medio-bassa,
ormai…), generazione di mezza età, abituato a rispettare le regole, a pagare le
tasse, a portare rispetto a chiunque, a fare da tornaconto alla fine del mese.
Erede di un’Italia bella che non c’è più, dove l’amore verso la propria
famiglia e il bene comune andavano di pari passo con la voglia di fare, di
avere giuste ambizioni. Erede fortunato di casa e proprietà, e gestore
sfortunato di bilanci mensili che non arrivano nemmeno a mettere insieme
quattro mattoni per futura dimora, in mezzo a un paese reale che oggi, qui,
ora, tra di noi, ha paura del proprio avvenire.
Noi. L’Italia che annaspa, arraffa,
sbuffa, indietreggia, e poi arrabbiata, incazzata, delusa, rapita, lontana,
fragile, presa in mezzo alla comunicazione globale fatta di tablet e smartphone
ma incapace di comunicare buona speranza. L’Italia del debito pubblico e della
politica rubata, quella che crede che è possibile ancora salvarsi “mediando”
rendite antiche (delle solite famiglie e dei soliti potentati economici che
comandano dalla ricostruzione post-bellica in poi…) e mercanteggiamenti da
palazzo. Senza minimamente immaginare quello che succederà a breve, anche ai
loro dorati palazzi, alle loro remunerate rendite finanziarie, ai loro nascosti
tesori immobiliari, se non si farà posto a una parola molto keynesiana, e forse
antica, ma mai dimenticata: redistribuzione del reddito. Il “noi” del bene
comune preso a randellate dall’”io” dell’etica individualistica, la praticità
del pareggio di bilancio (regola economica che dovrebbe essere presa ad esempio
più dalla microeconomia che non dalla macro) devastata a opera dell’arte di
“arrangiarsi”, tipica nostrana.
Noi,
paese in mezzo al guado, tra il pensare meridiano di Franco Cassano e un’etica
(e un’economia) mediterranea che ancora ha senso se il sistema Italia sappia
però riconoscere la propensione weberiana all’etica capitalistica che il nord
del paese ha nelle sue radici, perfino nell’anima.
Loro. La generazione incredula, i giovani
di oggi, quelli che sanno, che parlano via web, che si informano, si appassionano, così
antropologicamente diversi da ciò che ruota intorno a loro. Diversi da noi, fortemente diversi, portatori di universi culturali ed etici distinti e distanti. Loro, oggi già
alle prese con responsabilità politiche e culturali. Loro, i disoccupati, gli
innamorati, i delusi, che senza mamma e papà, anzi, senza la pensione di nonno
e nonna, non andrebbero da nessuna parte, non studierebbero nelle università più
famose e costose, non si potrebbero permettere le settimane bianche,
l’automobile a 18 anni, e i consumi, cari, dei loro smartphone. Loro, che già
oggi anticipano in un supplemento di emozione quello che avverrà tra non molto tempo, quando i supermercati
saranno presi d’assalto perché la parola “fame” ha sempre diritto di primizia e
di parola.
E Renzi. Già, Renzi. Forse quello che ha
capito prima di tutti l’io, noi, e loro. Portatore di sogni in attesa di fatti.
Animale fuori dalla politica, quella che abbiamo conosciuto fino a oggi noi, perché oggi la politica è già “cosa” diversa, in
corso di mutazione genetica rispetto al cambiamento dei tempi. Ragazzo fattosi
da solo, senza capo-cordate, padrini politici, potentati economici alle spalle, figlio dei fatti e non dell'ideologia, figlio di questo tempo certamente ambizioso e appassionato, e ostico persino a
un Pd che ancora perde tempo a sondare la sua base piuttosto che far vincere il
paese. Lontano mille miglia dalle dispute su cosa sia la destra e la sinistra, e divulgatore di una rivoluzione dolce che certo non si può definire conservazione.
Ce
la farà? Chissà. Su una cosa ha ragione: se fallisce, fallisce lui, noi e
loro. E a questo paese non rimarrà altra che affidarsi, per l’ennesima volta, a
un futuro che è già passato. Ricominciando da zero. Tutti. Ma stavolta senza un
Piano Marshall a venirci a salvare.
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