Durante
un mio viaggio a Gerusalemme rimasi colpito dallo Shabbat. Ero ospite in un
albergo israeliano e quel senso di vuoto e di silenzio che formano un corpo
unico con il giorno del riposo, sacro per gli ebrei, mi fece capire molte cose.
Soprattutto la festa e i canti, alla fine dello Shabbat, che ogni famiglia
ebrea celebrava intorno a una tavola. Gli ebrei vivono, ancora oggi, una sorta
di immedesimazione ancestrale e “quasi” divina con la musica. Si tramandano i
canti, gli antichi salmi di lode e i racconti del popolo eletto, quasi meglio
dell’educazione scolastica. Prima il canto, poi la parola.
Non è un caso che gli ebrei siano dei musicisti straordinari. La stessa sensazione l‘ho avuta recandomi nella
sinagoga adiacente il Muro del Pianto: se un attimo prima i rabbini esaminavano
i giovani sulla Torah, subito dopo gli stessi esaminandi venivano portati in
“trionfo” sulle spalle degli adulti con canti, musiche e danze popolari. Moni
Ovadia racconta che l’unica spiegazione a questo amore per la musica e a un
certo virtuosismo insito nell’animus
ebraico risiede nel fatto che solo i popoli esiliati e perseguitati, chi ha
percepito il dolore sulla propria pelle, possono avere questa forza propulsiva
che gli esce fuori dall’anima, così, all’improvviso. Ebrei e rom, in ciò, sono
maestri.
Ho sempre pensato che ciò che
rende forte un popolo è il gusto per la memoria tramandata di padre in figlio.
E se una certa forza interiore circonda da millenni il popolo ebraico non è
perché sia il popolo eletto di Dio, bensì perché sa raccontare molto bene la sua
memoria. I giovani apprendono dagli adulti cos’è la vita e la morte, sanno
rispettare la vecchiaia che pure li circonda, hanno il senso di una terra da
difendere e di una religione da proteggere.
Poi cantano, suonano, come pochi
sanno fare. Assistere a un concerto di musica klezmer è come proiettarsi
all’improvviso dentro Auschwitz o sentirsi nomadi erranti dentro un vagone
merci alla ricerca della patria perduta, e nello stesso tempo sorridere e
danzare per un amore consacrato nella mani di Dio.
Una volta, anche nella nostra
Italia contadina e operaia, si raccontava la memoria dei padri. Ne avevamo
gusto. Il tempo liturgico accompagnava il tempo ordinario della vita, la Pasqua
e il Natale erano l’occasione buona per ricordare i morti in battaglia e le
lotte per i diritti, oltre agli amori trovati e conquistati. L’albero
genealogico veniva lustrato a nuova vita. Il vino scendeva a fiumi, e il cibo
era l’immagine di un popolo appena uscito dalla grande guerra che sapeva cosa
era la dignità. Un cibo sacro, dal sapore di pane e cucine povere. Dato in
pasto alla mensa riunita al gran completo, quasi un omaggio voluto alla
solidarietà. Si è forti quando si è insieme.
È il gusto della memoria che dà
sapore ai cibi e rende dialogico ogni incontro con l’Altro. Senza la memoria
non siamo nessuno.
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