Nella
storia della Chiesa e dell’umanità i monasteri sono sempre stati la culla del
sapere e l’oasi della spiritualità. Quasi sempre rifugio e dimora per viandanti
e pellegrini che non avevano di che sfamarsi e dove passare la notte sotto un
tetto.
Una
storia dove silenzio e accoglienza si sono sempre tenute compagnia. Si chiamava xenodochium,
tradotto letteralmente sarebbe “ospizio per pellegrini”. Oggi si usa una parola
più brutta, foresteria. E anche gli ospedali hanno la loro origine nell’antica
pratica cristiana dell’accoglienza e della “caritas”, che i monaci hanno sempre
praticato senza distinzioni di sesso, religione o etnia. Anzi, spesso le due
anime del monachesimo occidentale, l’eremo e il cenobio, hanno sempre condiviso
i loro carismi insieme. E più l’anima ascetica e contemplativa ha raggiunto la
perfezione, più l’accoglienza all’ospite inatteso ha avuto la sua lettura
terrena nell’abbraccio all’evangelio.
Oggi, a causa della crisi di
vocazioni soprattutto in ambito monastico, le mura di monasteri e conventi sono
spesso fatiscenti e ridotti a materia senza anima. Come se, finito l’ardore
mistico, mancasse di fatto la terra sotto i piedi. Le braccia e le mani sono
sempre di meno: forse non bastano nemmeno alla sopravvivenza delle stesse
comunità.
L’ammonimento di Francesco - «I conventi vuoti non servono alla Chiesa per
trasformarli in alberghi e guadagnare soldi. I conventi vuoti non sono nostri,
sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati» - scuote proprio queste mura
fatiscenti e le anime e i cuori di chi ci vive. Naturalmente ci sono le
eccezioni, e per fortuna sono tante. Spesso i monasteri con più vitalità
spirituale e aperti a una visione conciliare di una Chiesa che abbraccia il
mondo, sono anche valido rifugio per chi non ha un tetto o da mangiare. Ma
Francesco ha toccato un nervo scoperto del rapporto istituzione-popolo di Dio,
costringendo, ancora una volta, a ripensare i modelli organizzativi di una
Chiesa che se non riscopre l’essenziale di un servizio accanto ai fratelli non
ha ragione di esistere.
Alcuni
anni fa, l’amico Erri De Luca scrisse un “accompagno” a un mio libretto
intitolato “A tavola con Dio”. Eccone un passo: Al termine del pasto la benedizione ebraica ringrazia dicendo:
«Perché abbiamo mangiato da ciò che è suo». Per il credente ogni porzione è
manna sapendo che di sua proprietà è il suolo che fa crescere il cereale, non
sua è l’acqua di cielo che l’irriga, non suo il sole che attira la spiga verso
l’alto e la riempie di chicchi rivolti all’insù, come un’offerta. «Dacci oggi
il nostro pane quotidiano»: questa preghiera è anche un ordine del giorno.
Senza il rifornimento garantito dal dispensatore non si sostiene vita. Si è
tutti ebrei ammassati nel deserto dentro una libertà bisognosa di tutto. La
manna, come il pane quotidiano proviene, come dice la benedizione, «da ciò che
è suo». Dalla condizione di invitati e non di padroni di casa discende il
rapporto della persona di
fede con il nutrimento.
Le vetrine luccicanti, la
somma di denaro in tasca, fanno dimenticare l’origine del cibo. Ci si crede
proprietari grazie a un atto di acquisto, a uno scontrino. Ma è solo l’ultimo
gradino, il più basso, di una catena di produzione avviata dagli elementi base
di acqua, aria, terra, fuoco. Non ne siamo gli eredi ma gli ultimi usufruttuari
di un prestito sempre revocabile e spesso revocato. Questa è la tavola col cibo
del mondo. La specie umana, per quanto numerosa, non ne mancherebbe.
La fame è un’offesa
ingiustificata.
La fame
è un’offesa ingiustificata. Il
napoletano innamorato di ebraico antico e di Gerusalemme e suo” fratello
Bergoglio, immigrato d’Argentina in terra italiana, si danno la mano.
E per un
giorno, almeno, l’evangelio sorride e dà speranza.
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