I supermercati presi d’assalto
come se fossimo alla vigilia di un conflitto mondiale. Mancano pane, pasta e
farina. La probabilità che un giorno o l’altro i russi ci taglino il gas, e
addio riscaldamento. Come quel 28 settembre 2003, quando un guasto a un
centrale elettrica svizzera mandò l’Italia al buio. Le grandi città che vanno
in tilt perché nevica. Le gomme termiche che nessuno usa. I comuni del Nord
Italia che vivono almeno per sei mesi l’anno con neve e freddo sotto gli zero
centigradi. E non succede mai niente. Le caldaie ghiacciate. L’energia
elettrica mancante. I servizi comunali che non esistono, almeno a Roma. E il
solito balletto delle competenze e dello scaricabarile. Ma è colpa di chi? Le
grandi megalopoli in preda alla disorganizzazione totale nell’era della
comunicazione e della tecnologia. Dove stavano Anas, vigili del fuoco, polizia,
carabinieri ed esercito quel famigerato 3 febbraio? E le previsioni meteo
scaricabili dai pc?
Chissà il famoso mito del
progresso dove sia andato a finire. Siamo sicuri che viviamo tutti nel
benessere? Oppure, il progresso, è un’illusione che si scioglie alla prima
nevicata di stagione? Siamo così sicuri che le nostre città siano realmente
infallibili? Che un giorno o l’altro non moriremo surgelati o surriscaldati o
naufragati o inzuppati nelle piogge torrenziali?
Serge Latouche, filosofo ed
economista francese, parla senza mezzi termini di “decrescita serena”. Sarà
forse utopico. Ma a noi piace. In alternativa al modello neocapitalista e al
mito del prodotto interno lordo, preferiamo una società più povera dove
sottomettere le decisioni politiche ed economiche alla dura legge della
termodinamica, secondo la quale nulla si può fare senza che l’energia si
degradi.
La teoria di Latouche si traduce
in otto “R”: rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire,
rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare. Basteranno per arginare la deriva di questa società che consuma,
spreca, e non produce più beni di prima necessità?
Nel momento più critico della
pratica del neocapitalismo selvaggio basato sulla crescita individualista che
se ne frega del bene comune, ripensare la decrescita serena non come un “no” allo
sviluppo mirato, ma come a un “sì” a una a-crescita consapevole è la sola e unica via possibile.
Per tutti. Per i paesi
occidentali, aggrappati come delle piante rampicanti al muro di una teoria
dello sviluppo che non ammette sconti. Per i paesi più poveri, semplicemente
perché così forse si salveranno.
Decrescita serena. Traduzione per
l’oggi: tornare alle “cose” di una volta. Con l’aiuto del progresso, s’intende.
Tornare alla terra, e alle angustie del cielo. Ma sapendoli rispettare questo
cielo e questo creato. E ricominciare da lì. Con l’iphone in una mano e una
pala per liberare la neve nell’altra.
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