Lo
scorso 16 aprile Benedetto XVI ha compiuto 85 anni. Tre giorni dopo, il 19 di
aprile, ha festeggiato sette anni dalla sua ordinazione al soglio di Pietro. Un
pontificato già lungo e importante, considerando l’età del papa, e pienamente
immerso in un tempo di “transizione” con il quale la Chiesa e la società stessa
stanno facendo ancora i conti.
Gli
esperti di “cose” vaticane cercano di leggere tra le pieghe del magistero del
papa le future mosse del pontificato, ma questo papa, il fine teologo tedesco e
il più importante collaboratore di Giovanni Paolo II, ogni volta sorprende i
suoi interlocutori e, spesso, la stampa specializzata. E chi tenta di
catalogarlo come espressione di un solo pensiero e di un solo modo di agire,
sbaglia di grosso. Al mondo cattolico progressista-riformatore, quello in gran
parte vicino alle posizioni di chi pensa che il Concilio Vaticano II sia stato
per la Chiesa un tempo di vera discontinuità con la tradizione, piace molto il
papa teologo e pensatore, quello che scrive i messaggi, i libri, legge le
omelie e quello che non ha avuto paura di affrontare il problema dei preti
pedofili. Meno, ovviamente, il papa che tratta con i lefebvriani, che
liberalizza la messa in latino, che ha più di mille cautele quando la curia
annaspa tra mille polemiche o quando deve prendere decisioni in merito allo
strapotere dei movimenti ecclesiali che, sotto il suo predecessore, avevano
ampia libertà di agire in modo indisturbato. Ai tradizionalisti-conservatori,
invece, per tanti anni in grande spolvero sotto la mano protettrice di Wojtyla,
questo papa va bene se non si interessa troppo degli affari di curia, se
benedice il latino, se non si impiccia dei movimenti ecclesiali, se condanna il
Concilio Vaticano II. Se, insomma, lascia correre questo tempo di transizione
senza troppo nuocere allo status quo
ecclesiale-teologico-pastorale avvenuto dopo la morte del papa polacco. I
conti, pensano, se vanno fatti, è meglio farli al prossimo conclave.
In
realtà, come è facile dimostrare, Benedetto XVI ha sorpreso parecchio i suoi
estimatori e i suoi eventuali detrattori. Sia in ambito cattolico che laico.
Tutti gli riconoscono grande finezza intellettuale: l’essere capaci, oggi, di
parlare di Gesù a questa società contemporanea non è così semplice. E lui lo
fa, costantemente. Con passione e rigore teologico. Chi approfitta di alcuni
errori, privati e pubblici, degli uomini di Chiesa per dare la colpa solamente
al papa, sa che è in difetto. Tutti sanno, ad esempio, che la situazione degli
abusi sessuali non è questione di questo pontificato. Certi atteggiamenti, non
certo approntati a sobrietà e rigore morale oltre che a carità cristiana,
appartengono a un passato dove tutto era possibile e dove parecchio era permesso.
Per
considerare, dunque, questo, un papato di “transizione” ce ne vuole. In sette
anni Benedetto XVI ha compiuto 23 viaggi internazionali, 27 in Italia, ha
scritto tre encicliche Deus caritas est
nel 2005, Spe salvi nel 2007 e Caritas in veritate nel 2009), parlando
di Cristo e di un uomo che dovrebbe percorrere di nuovo la strada di un innamoramento
per il Figlio di Dio. Il libro Gesù di
Nazaret ne è la riprova più evidente. Ha riformato la leggi finanziarie
della Chiesa per allinearla agli standard di trasparenza internazionali. Ha
indetto quest’anno un anno della fede, istituito un Pontificio consiglio per la
nuova evangelizzazione e si appresta a celebrare i 50 anni dal Concilio
Vaticano II. Insomma, un papa forse non in perfetta forma fisica per via
dell’età, ma pronto ancora a impegnarsi come un “contadino nella vigna del
Signore”.
Ci
sono però due atteggiamenti dell’attuale pontefice che ci piace segnalare, e
che paiono entrambi profetici. Senza dubbio Benedetto XVI ha introdotto nella
vita curiale uno stile sobrio e riconoscibile. Rispetto agli scandali, agli intrallazzi
e ai comportamenti privati poco limpidi che nulla hanno a che fare con la
storia millenaria della Chiesa e che ci sono, ci sono stati e hanno avuto come principali
comparse i presbiteri, ebbene di fronte a ciò il papa attuale appare come una
montagna, fiera e bella, che aspetta i tempi della fioritura dopo l’inverno
burrascoso. Al papa piace parlare di Gesù. Nient’altro. Può essere questa una
colpa?
Il
secondo aspetto di questo pontificato, forse meno visibile ai credenti, è
l’aver “detronizzato” (per usare un termine forte) il soglio di Pietro. Il papa
non è più, come nel caso di Giovanni Paolo II, un monarca, un re a cui tutti
dovevano formale obbedienza. Qui, la cosiddetta e presunta “debolezza” di un
papa a cui piace discutere ascoltare, mettersi in discussione con la sua Chiesa
e con il resto dell’umanità non solo è il ritratto di un pensare laico e
cristiano sull’uomo che ha una sua eleganza e importanza, ma anche il
presupposto, per ora nascosto, di un pensiero sul ministero petrino che
sostituisce l’autorità all’ascolto, il potere al dialogo, la rigidità al
sorriso.
Che
sia capitato di portare questa “croce” all’inossidabile card. Ratzinger, inflessibile
capo dell’ex Sant’Uffizio, non dovrebbe sorprenderci. Perché è la prova
evidente di una Chiesa che sa rimettersi in gioco e riconciliarsi con il mondo.
(l'articolo è stato pubblicato sul numero di giugno de L'Eco di San Gabriele)