Quella
sera del 13 marzo di un anno fa ero anche io in piazza San Pietro. Pioveva
dalla mattina, e faceva freddo. Scelsi di stare tra la folla di fedeli e
semplici curiosi che già riempivano il Colonnato, piuttosto che tra il caldo e
l’amicizia dei colleghi in sala stampa. Sentivo che qualcosa stava per accadere
alla sposa del Cristo, qualcosa di nuovo, di incredibile. Troppi scandali aveva
sopportato la Chiesa negli ultimi tempi, il Vatileaks, i preti pedofili, e un Benedetto
XVI esposto all’ingovernabilità della barca di Pietro, fino al profetico gesto
delle dimissioni.
Così,
quando venne la fumata bianca, mi misi a guardare la finestra della loggia
centrale, quella dalla quale si pronuncia l’habemus
papam, con la certezza di assistere a un evento storico, e non era certo la
prima volta che seguivo l’elezione di un nuovo papa. Ricordo ogni volto, ogni
sorriso, perfino il pianto della gente. Ricordo le preghiera per le strade di
Roma, i volti tesi, gli abbracci, la grande bellezza di un evento mediatico,
certo, ma anche la certezza che il soffio dello Spirito vagava lì, in una
piazza brulicante di gente, in attesa di posarsi sul successore di Pietro.
C’era
un silenzio strano. Quando il protodiacono, il francese Jean-Louis Tauran,
lesse la formula di rito, l’habemus papam,
e disse: «Eminentissimum ac Reverendissimum, Dominum Georgius Marius, Sanctae
Romanae Ecclesiae Cardinalem Bergoglio, qui sibi nomen imposuit Francescus», il
silenzio si prese la piazza. Soprattutto quando Francesco parlò per la prima
volta, e chiese di pregare per lui. Un silenzio assordante, non si sentiva un
cellulare, perfino le automobili smisero di far rumore nel traffico impazzito
di Roma. La gente non capiva. Chi è Bergoglio, chiedeva? È un italiano? Cercai
subito di rassicurare i vicini. Ma dentro di me fremevo, ero quasi sconvolto da
una notizia che per me rappresentava la
buona notizia, il fatto che la Chiesa era viva, che il vangelo ancora oggi
poteva incamminarsi per le strade del mondo.
Ripensai
al maestro scomparso da poco, il cardinale Carlo Maria Martini, e al fatto che
proprio lui cercò di far eleggere sette anni prima lo stesso Bergoglio come
papa, salvo poi dirottare i voti dei progressisti sul conservatore Ratzinger,
per paura che i voti premiassero altri personaggi di curia più discutibili.
Pensai a lui: chissà come si sentiva, oggi, in cielo. E poi quel nome: Francesco.
Che altro c’era da aggiungere?
Troppo
chiaro quel nome, troppo forte. Troppo evangelico. Scoppiavo di felicità. In
quel nome c’era già tutto: il futuro papa Francesco, anzi vescovo Francesco, si
presentava al mondo con un nome che incarnava il vangelo più sobrio, più povero,
più misericordioso, più tenero, più amico dell’altro.
Non
mi sbagliai con Bergoglio. I giorni a seguire furono così i giorni dello
Spirito. Le omelie di Santa Marta, la lavanda dei piedi a una donna musulmana e
carcerata, l’abbraccio ai migranti sbarcati a Lampedusa, la riforma dello Ior,
la riforma della Curia, i nuovi cardinali fuori dai soliti giri e dalle solite
poltrone, i vescovi scelti come umili servitori del proprio popolo, le
randellate ai fratelli preti.
Il
sorriso di Francesco spiazza fedeli e non credenti. Il suo non è buonismo di
facciata. Semmai è misericordia, tenerezza dell’abbraccio con Dio. Bergoglio è
un gesuita. Ascolta tutti, poi decide. Ha una formazione severa, sebbene il suo
animo latino-americano, allegro per natura, si è allenato alle dittature dei militari
nell’America Latina martoriata dalla povertà e repressa nell’uso dei diritti
più fondamentali. Ha conosciuto la teologia della liberazione, ne è stato anche
l’artefice, sa cosa significa fare il prete quando per il popolo non c’è cibo,
né acqua, e quando la democrazia è una parola ormai dimenticata.
Con
il tempo mi sono fatto l’idea che papa Francesco raggiunga ciascuno dei fedeli
e dei più lontani a modo suo. Come è giusto che sia. Ognuno sa coglierne aspetti
particolari, ognuno crede che Francesco faccia una determinata cosa o un’altra
perché ha da sistemare la Chiesa, oppure perché crede in un nuovo annuncio missionario.
Parlando
con alcuni monaci, mi sono fatto l’idea che Francesco sia davvero un uomo di
Dio. Che abbiamo avuto fortuna nell’incontrarlo nella nostra vita. Un uomo di
Dio che sta cambiando la sua Chiesa e che la sta portando, nemmeno troppo
lentamente, sulla strada degli uomini liberi e innamorati di un Dio che salva
con il sorriso.
Pensando
a Francesco, non posso, oggi, non dire che parole come misericordia e tenerezza
da tempo non frequentavano il lessico della teologia, almeno quella abituata ai
convegni e ai documenti ufficiali. Da quel 13 marzo di un anno fa, il vangelo
si è sdoganato dalle mura del tempio e ha iniziato un nuovo cammino di umanità.
Sì, ha
messo di nuovo in discussione i termini di una fede annunciata e forse, nel tempo,
poco praticata, ci ha costretto a un atto di sottomissione rispetto a una novità
pastorale così elettrizzante, ci ha fatto guardare dentro l’anima.
Al
di là di quello che sta suscitando la novità Francesco, sia nella pastorale che
nella teologia, Francesco, oggi, tocca i nostri cuori. Oltre i nomi, lo Ior, la
burocrazia, i conservatori, i tradizionalisti, oltre tutti quelli che hanno
fatto scivolare la Chiesa nel baratro della religione civile e lungo i sentieri
inossidabili della difesa dei valori non negoziabili.
Con Francesco
non c’è nulla di tutto ciò. Lui, il papa, il vescovo di Roma, dà credito al
vangelo dell’uomo. Per alcuni è una iattura. Per me, semplice cristiano, è più
di un segno. È lo Spirito che batte forte sulle porte della storia.
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