La morte del giovane studente
mentre montava il palco per lo spettacolo di Jovanotti a Trieste lascia a tutti
noi, oltre che un senso di frustrazione e sgomento, alcune domande che vanno
poste sul piatto della bilancia delle emozioni.
Senza entrare nel merito della
liceità di tale lavoro (che spetta alla magistratura e che, bisogna dirlo, lo
stesso Jovanotti ha voluto confermare come il tutto si sia svolto nell’abito
della legalità e di controllo della sicurezza sul lavoro), la morte del
ventenne mi fa venire in mente che è sempre un fatto positivo se uno studente,
per arrotondare e pagarsi gli studi, si dia da fare con qualche lavoretto. Alle
fatiche facili di facebook e twitter, che ogni collega giovane è abituato a
gestire durante la giornata, qui c’è la storia di uno che fa la fila in un
luogo qualunque di una qualsiasi città per svangare il lunario. E non pesare
sulle spalle dei genitori.
La seconda considerazione, per
paradosso, è che proprio questo atteggiamento dell’”arrangiarsi” rivela ciò che
oggi non funziona più tra mondo dell’istruzione e mondo del lavoro. In altri
paesi occidentali, evidentemente più evoluti del nostro, lo “studio” è una cosa
seria, da esercitarsi negli anni, al riparo da facili promesse lavorative
immediate, affinché un giorno possa dare i frutti nel lavoro sognato e
sofferto. Insomma, c’è un tempo per lo studio e un tempo per il lavoro.
Ciò non succede in Italia. Il
“lavoretto”, spesso al nero e sottopagato, è la mina vagante di una società che
ha dimenticato i propri giovani nella retrovia della storia e affondato le
residue speranze di un welfare che sappia accompagnare il futuro delle giovani
generazioni nel difficile passaggio tra l’istruzione e il lavoro.
Ecco perché la morte di Francesco
ci lascia una tristezza doppia. Una vita umana persa e un futuro che sembra
spezzarsi come i ponteggi del Palasport di Trieste.
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