In un mondo che gira veloce come
i bit dei computer, c’è una parola che accompagna i miei assaggi di tempo: lentezza. Ne scorgo il sapore lontano: ha i colori della
memoria, delle ricette di una volta e del pane fatto in casa, e anche dei
ricordi di una sobrietà di vita di chi ha costruito il futuro di questo Paese.
La memoria delle cose buone ha l’odore dell’antica saggezza popolare, di una
canzone mandata a memoria, di fuoco, acqua e vento che viene dai campi. E
quando la memoria va lenta, significa che ha ragione. Ha avuto ragione.
L’altra parola nobile che cammina
con il ritmo cadenzato del cuore e dell’anima è transumanza. Sa di pastorizia, ma mi sembra di un’attualità
sconcertante. Transumanza è il lento andare con il ritmo della natura, che non
ha paura dell’Altro, chiunque esso sia, incontrato per caso durante il viaggio.
Sono transumante perché mi incammino lungo i tratturi dell’inaspettato e
dell’incontro. I luoghi del dubbio e del limite mi attraggono, da sempre. Ne
assaggio l’utopia nascosta.
Lentezza e transumanza valgono un
calice di Pinot nero, quello gustato da soli nelle oasi di desiderio a oltranza
che ti invita un buon libro che sa di vecchio. Amo le pagine giallastre, che
fanno a pugno con i bep dei computer. E il suono del silenzio. Il vino
accompagna il desiderio di due, come dice il mio amico Erri. E due è sempre il contrario di
uno.
Quando sorriso e vino, lentezza e
transumanza si siedono a banchetto allora la buona speranza è di casa. Convito laico che regala utopia
possibile. Oggi, ovunque.
Nell’Italia in cui mi sento ogni
giorno di più straniero, porto dentro la mia bisaccia del pellegrino tre parole
per una spiritualità laica dei giorni dispari. Adattando a quelli pari i luoghi
dell’amore.